Passi avanti, non ancora il traguardo

Il Governo italiano si interessa al caso degli eritrei detenuti. E il Governo libico sembra disposto a concessioni.
Rifugiati

La questione umanitaria dei profughi eritrei nel carcere del sud della Libia ha smosso le coscienze, se Frattini e Maroni hanno ritenuto opportuno rispondere a un invito sollevato anche dalle pagine de Il Foglio. Così anche le dichiarazioni rese alla commissione Esteri del Senato dal sottosegretario della Farnesina, Stefania Craxi, che è arrivata a parlare di possibile accoglienza in Italia per un certo numero dei rifugiati stessi.

 

Al momento l’azione diplomatica svolta dal governo italiano è stata quella di «sensibilizzazione nei confronti delle autorità libiche sulla questione dei diritti umani», così da arrivare all’annuncio  del ministro libico per la pubblica sicurezza della possibilità per gli eritrei reclusi a Braq di essere liberati a condizione di accettare un «lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia».

 

Un passo avanti «se davvero i rifugiati eritrei possono uscire dall’inferno di Braq e non devono temere la deportazione in Eritrea», ha dichiarato Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati che aveva chiesto, invece, la visita di una delegazione di enti umanitari non politici. Anche perché la soluzione trovata non fa venir meno alcune domande rimaste in sospeso, sempre secondo il Cir: «Quale prezzo si paga? Quello di mettere a grave rischio i familiari rimasti in Eritrea ed esposti a rappresaglie come regolarmente è avvenuto nel passato? O il prezzo di dover ammettere la colpa di aver lasciato il proprio Paese in modo illegale e quindi l’ammissione di un reato grave come quello della diserzione che in Eritrea significa lavoro forzato a tempo indeterminato? Vogliamo ribadire che si tratta di rifugiati che, per definizione, non possono o non vogliono avvalersi della protezione del proprio Stato e non di immigrati per motivi di lavoro che tranquillamente possono farsi registrare presso la propria ambasciata».

 

La condizione dei profughi provenienti da quel pezzo d’Africa, primo territorio dell’avventura coloniale italiana, rimette in gioco l’interpretazione del Trattato di Bengasi tra Italia e Libia del 30 agosto 2008 che, come riconoscono alcuni studiosi «non è un semplice trattato di amicizia e navigazione, ma intende imprimere un salto di qualità alla relazione dei due Paesi, istituendo un vero e proprio partenariato» che coinvolge diversi ambiti, da quello economico e industriale, all’energetico e alla difesa fino alla lotta al terrorismo e all’immigrazione clandestina.

 

L’anomalia da subito evidenziata riguarda il fatto che la Libia non è parte della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951 che assicura «il non respingimento del rifugiato alle frontiere di uno stato in cui la sua vita o libertà sarebbero messe in pericolo». Evidenza da subito sottolineata, ad esempio, da mons. Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per la pastorale delle migrazioni, che non ha condiviso la decisione italiana di intercettare in mare gli immigrati «respingendoli forzatamente in Libia, come previsto da un accordo bilaterale con quel Governo, e ciò senza valutare la possibilità che vi fossero fra di loro rifugiati o persone in qualche modo vulnerabili».

 

Secondo l’art 33 della Convenzione di Ginevra, infatti «nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».  Un divieto che si applica ovviamente anche nel caso in cui il respingimento o allontanamento venisse ad effettuarsi verso un Paese che potrebbe a sua volta rinviare la persona in un territorio in cui sarebbe esposta a tale trattamento.  

 

Secondo numerosi esperti di diritto internazionale, ad ogni modo, questo principio di diritto umanitario sarebbe ormai diventato un principio di diritto consuetudinario e cioè tale da vincolare anche gli Stati che non abbiamo scritto le convenzioni che lo prevedono. E secondo altri ancora è comunque vincolate l’art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, richiamata dall’art. 6 del Trattato italo libico del 2008, dove si stabilisce che ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. Tutto dipende dall’applicazione in concreto di tali norme universali, tenendo ben presente che i ministri italiani continuano a contestare il fatto che tra le persone fin qui recluse e oggetto di maltrattamenti ci siano gli eritrei respinti in mare dalle coste italiane verso la Libia l’estate del 2009.

 

I dati del Cir parlano di meno di 18 mila persone che hanno fatto richiesta di asilo in Italia nel 2009, rispetto alle 30 mila nel 2008. Una diminuzione del 42 per cento che lascia aperte le domande sulla fine dei tanti migranti che fuggono in cerca di aiuto da situazioni di estremo pericolo. Altre domande inevase riguardano, come sempre, l’Europa che non riesce ad esprimere una politica condivisa e solidale, non dei soli Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, di gestione di un fenomeno migratorio lasciato alle intese dei singoli Stati.

 

Un passo avanti dunque il primo interessamento delle autorità italiane. Non ancora la soluzione definitiva di un problema destinato a riprodursi.      

 

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