Il paese al 100 % cristiano

Un pomeriggio in un villaggio in cui non ci sono musulmani, né alauiti. Qui la vita scorre scandita dai riti della vita e della morte. Anche in tempo di guerra  
ANSA/UFFICIO STAMPA UNICEF

Ci accoglie nella sua parrocchia greco-cattolica, un isolato che ospita anche la sua abitazione (è sposato con 4 figlie e un figlio) e una serie di servizi pastorali, tra cui un asilo. Il suo incipit è chiaro: «Chi vive la guerra da vicino per certi versi è favorito rispetto a chi la vive da lontano, come una costante minaccia. Io ho sempre vissuto qui, dove la guerra non è arrivata direttamente, ma l’ondata di sfollati è stata tale che la guerra è venuta nelle nostre case dove li abbiamo accolti. Quanti pianti ho dovuto consolare, quanta gente ascoltare, quante donne e bambini aiutare. Solo qui nel nostro villaggio cristiano di Kfarbo abbiamo ospitato 280 famiglie, il che vuol dire circa 1500-2000 persone».

Padre Nabil mette il dito nella piaga forse più grave che colpisce l’intera Siria: «Più di 3 mila giovani e adulti sono partiti da Kfarbo dall’inizio della guerra, tutti maschi, o quasi. Perché non c’era lavoro, per non partire al militare, o semplicemente per la moda di imitare quelli che erano partiti. Le famiglie più ricche avevano paura di essere rapite, dei ragazzi lo sono stati anche qui, per poter poi chiedere un riscatto. Ora, quindi, abbiamo un vero problema per tante ragazze che non trovano marito e sorge il problema di tenere agganciati questi ragazzi alla loro terra, cercando di favorire i matrimoni tra ragazze rimaste qua e ragazzi partiti, sperando in un susseguente ricongiungimento familiare. Costato che questi matrimoni reggono e, quando possibile, delle coppie stanno tornando in patria».

Assume quindi accenti “da Giobbe”, sfogandosi un po’ col Signore Iddio: «Di fronte alla sofferenza altrui avverto la mia impotenza. A volte dinanzi al mio ufficio c’è una lunga fila di persone che vuole parlarmi, come se avessi una soluzione per ognuno. Siamo soli, non ci sono Ong qui a Kfarbo, sono tutte ad Aleppo, Homs e Damasco. Qui siamo sulla croce. A volte mi sento debole e mi chiedo, se potessi tornare indietro, se rifarei il prete. Il sacerdozio chiede una forza che solo il Signore può darci. E i miei figli? Spesso ho l’impressione di trascurarli per occuparmi della gente che bussa alla mia porta… E non riesco a sopportare la morte. 48 persone qui a Kfarbo sono morte per la guerra, ho celebrato 48 funerali. E non riesco più a guardare in faccia la morte nei cadaveri come nei parenti dei morti».

Malgrado tutto c’è un filo di ottimismo: «La guerra finirà e arriveranno i problemi della ricostruzione. Ma serviranno 30 o 40 anni per tornare ad essere come prima. Serviranno una o due generazioni per riparare morti, ruberie, vendette. Bisogna trasmettere ai nostri fedeli la capacità di perdonare. Non basta la sicurezza che il governo può dare, non bastano le riconciliazioni, serve anche e soprattutto perdono. Ma ciò richiede tempo».

La questione dei bambini è presente nelle parole di padre Nabil: «Accolgo centinaia di bambini al catechismo, vengono qui e sono felici di avere qualcuno che non parla loro solo della guerra come spesso accade in famiglia, ma anche della gioia, del gioco, dell’amore. Cerco di dar loro questo mix evangelico. Con questi bimbi si gioca il futuro della Siria e il futuro della Chiesa in Siria. Spesso questi bambini passano qui dopo la scuola solo per salutarmi e io do loro una caramella, hanno bisogno di queste manifestazioni di affetto».

Con padre Nabil ci rechiamo nella grande cattedrale ortodossa di Kfarbo, per un matrimonio. La banda cessa di suonare e la cerimonia comincia: dinanzi all’iconostasi i preti della città sono riuniti attorno al loro vescovo e ai due sposi, che non sono certo ragazzini, avranno 40 anni circa. Lui era militare, finalmente ha avuto il congedo e quindi può “convolare a giuste nozze”. Tutti, nessuno escluso, ci invitano a sederci in prima fila, siamo gli ospiti. Il vescovo greco-ortodosso di Homs, Nicolas Baalbaki, ci accoglie appena terminata la cerimonia: «Nella situazione attuale bisogna pregare e pregare molto, amarci – ci dice – perché Dio ci ascolti e possa inviarci la pace. Noi dobbiamo fare il bene, parlare col popolo e coi governanti. È importante che papa Francesco abbia onorato la Siria con la porpora cardinalizia data al nunzio. La considero anche come approvazione dell’ecumenismo che si svolge in Siria: qui i rapporti tra le Chiese cristiane tradizionali sono ottimi, un po’ meno con le varie sette protestanti che operano anche in Siria e che fanno proseliti con il denaro». E conclude evangelicamente: «Bisogna restare in queste terre, perché siamo “la luce del mondo”, anche per il nostro Paese».

Ci capita pure di partecipare al rito, molto sentito qui, delle condoglianze. È morta una donna, la suocera di padre Nabil: ci rechiamo così a porgere le nostre deferenze nella tenda che, per gli uomini, è stata rizzata nella strada dinanzi all’abitazione della donna. Passiamo dinanzi alla fila dei parenti, ci inchiniamo leggermente portando la mano al cuore, e poi sedendoci per cinque minuti sorbendo un caffè. Le donne, invece, restano all’interno della casa. Ci sono anche musulmani e alawiti. La comunità piange i morti unita, un buon viatico per il futuro.

Kfarbo è un paese come ce ne sono tanti attorno alla città di Hama. La tradizione vuole che siano o tutti cristiani, o tutti alawiti, o ancora sunniti, o sciiti. Il che non vuol dire che non vi siano delle eccezioni (i profughi della guerra stanno mescolando un po’ le carte), o che manchino i rapporti tra diverse comunità. È una tradizione, come spesso accade in queste lande mediorientali, come in Turchia, in Libano o in Iraq. Le minoranze tendono a crearsi un habitat protetto: agli ingressi del paese, delle guardie private evitano intrusioni indesiderate. Qui a Kfarbo il 100 per cento della popolazione era cristiano. Ora forse il 95 per cento. La produzione è essenzialmente agricola: attorno al paese la campagna è rigogliosa, un vanto per la popolazione. L’acqua proviene abbondante dalla catena montuosa dell’Anti-Libano e l’irrigazione viene svolta con raziocinio sin da tempi antichissimi, come testimoniano le grandi ruote di Hama, le norie, che sollevano l’acqua fino agli acquedotti costruiti ad hoc.

Trascorriamo la serata con un gruppo di cristiani che desiderano festeggiare il nostro passaggio. Tutta gente che, anche se in alcuni casi ne aveva la concreta possibilità, ha deciso di restare in Siria. C’è un tassista, un contadino, un impiegato statale, un paio di casalinghe, un’insegnante, un idraulico, un decoratore, un commerciante ambulante, un informatico… Anche taluni dei presenti hanno qualche figlio all’estero, come tutte o quasi le famiglie siriane. Qui prima della guerra si stava bene. La tradizione vuole che qui le ragazze non ereditino tutto, e che la casa di famiglia sia attribuita al figlio più piccolo, quello che dovrebbe assicurare la vecchiaia ai genitori. Ma uno dei presenti ci fa presente che nella sua famiglia la tradizione è stata rotta, perché l’eredità è stata divisa dai genitori in parti uguali tra figli e figlie. E un altro padre di famiglia mi racconta come con sua moglie abbiano solo una figlia, e per giunta adottata: è la prima del paese, dopo secoli in cui i figli “si facevano” a casa. Anche questi sono sintomi dei tempi che cambiano, pure a Kfarbo, pure durante la guerra.

 

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