Occupazione, gli obiettivi dell’Ue

Il Rapporto annuale sulla crescita dell'Unione Europea pone l'accento sulla situazione occupazionale, identificando alcune priorità di intervento. Un forte richiamo agli Stati membri
Sciopero lavoratori

Il dibattito sul lavoro non tiene banco solo in Italia: i tassi di disoccupazione ancora alti all’interno dei Paesi dell’Unione hanno spinto la Commissione europea a porre la questione dell’impiego al centro del Rapporto annuale sulla crescita, presentato dal presidente Barroso, dal commissario agli affari economici Olli Rehn e dal commissario al lavoro Laszlo Andor.

 

L’Europa è infatti chiamata a tener fede agli impegni che si è posta con la "Strategia Europa 2020", che definisce gli obiettivi da ottenere entro tale data su vari fronti (dall’occupazione all’efficienza energetica). E in quanto al lavoro, la situazione non è delle più rosee: secondo il Rapporto, l’obiettivo di raggiungere un tasso di occupazione medio europeo del 75 per cento non sarà raggiunto. I singoli Paesi membri hanno infatti posto delle soglie nazionali in base alla loro situazione specifica, che variano dal 62,3 per cento di Malta all’80 della Svezia; ma facendo la media e considerando le previsioni dell’andamento del mercato del lavoro, per il 2020 si arriverà al 73 per cento nella migliore delle ipotesi. Lo stesso discorso vale per la ricerca e l’istruzione, citati più volte come fondamentali per promuovere l’occupazione: l’obiettivo di destinare il 3 per cento del Pil alla ricerca pare sarà mancato – anche se solo dello 0,3 per cento –, così come quello di ridurre l’abbandono scolastico al 10 per cento e portare il tasso di laureati al 40: si calcola infatti, con lo stesso sistema, che nel 2020 gli europei che abbandonano gli studi prima del tempo saranno ancora l’11,3 per cento, mentre i laureati saranno il 38,1 per cento.

 

Queste cifre hanno quindi portato la Commissione a considerare l’intervento in questo campo una priorità. In particolare, il Rapporto dedica un paragrafo alle misure tese a conciliare la vita familiare e quella lavorativa (dagli orari flessibili agli asili aziendali) e uno a quelle per bilanciare «la protezione a volte eccessiva di chi ha un posto fisso con quella insufficiente dei precari», invitando gli Stati membri a introdurre «maggiori tipologie di contratti a tempo indeterminato per sostituire quelli temporanei». Non si rinnega dunque il dogma della flessibilità ma, nelle parole di Barroso, si tratta di costruire «un modo nuovo e dinamico di garantire protezione». Una sorta di flexicurity di nuova generazione? Forse, anche considerando che il Rapporto, pur riconoscendo apertamente il ruolo fondamentale giocato dai sistemi di welfare, precisa la necessità di «ridurre la dipendenza» da questi tipi di sostegno.

 

Si potrebbe obiettare che, di fatto, non c’è nulla di nuovo sotto il sole; tuttavia se, come ha affermato Barroso, con i nuovi sistemi di governance economica «ogni Stato porrà la dimensione europea ex ante nel definire le sue politiche nazionali», si spera che i richiami che arrivano da Bruxelles non cadano nel vuoto.

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