“O” come Otello

Otello non abita più a Venezia ma in qualche parte nel Maine e si chiama Odin. Non è un maturo principe ma un diciottenne giocatore di basket, fuoriclasse della squadra del liceo. È innamorato, ricambiato, della bella Desi (Desdemona, ovviamente) e Jago, che qui si chiama Hugo, è un suo compagno di squadra, invidioso oltre ogni limite dei suoi successi sportivi e sentimentali. Anche qui, come nell’originale shakespeariano, passione, invidia e gelosia costituiscono gli ingredienti della tragedia che culminerà con la morte di Desi per mano di Odin e il suicidio di quest’ultimo. L’operazione tentata da Blake poteva risultare anche interessante. Ma se a Shakespeare togliamo ambientazione e dialoghi, cosa rimane del suo indistruttibile fascino? Tutt’al più una storia intricata, banale e inverosimile, specie se ambientata in un liceo americano. Ma il film non decolla anche per colpa di una sceneggiatura spenta che imprigiona personaggi bidimensionali in un susseguirsi di dialoghi monocordi, spegnendo sul nascere ogni accenno di vitalità e passione. Qua e là affiora una scena azzeccata, un’inquadratura interessante, uno stacco avvincente, ma sono solo labili tracce messe in evidenza da un montaggio serrato che è forse la cosa migliore del film. Insomma, di Shakespeare rimane ben poca traccia in “O” come Otello.Talmente poca che hanno dovuto inventarsi un titolo come questo per dare un riferimento sicuro all’incauto spettatore. Regia di Timothy Blake; con Mekhi Phifer, Josh Hartnett, Andrew Keegan, Julia Stiles, Rain Phoenix, Martin Sheen, John Heard.

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