Numero chiuso, tra disagi e vantaggi

Iniziati i test d'ingresso alle facoltà universitarie. Al di là delle polemiche sui contenuti dei quiz, la vera questione è l'opportunità o meno di limitare l'accesso agli atenei.
 

Si apre il 2 settembre il carosello di test d’ingresso alle facoltà universitarie. La parte del leone la fa medicina, sia per l’alto numero di aspiranti, che per le polemiche in merito ai criteri di selezione e ai metodi più o meno truffaldini per accaparrarsi un posto; ma la lista dei corsi ad accesso programmato è lunga, anche in virtù del fatto che i singoli atenei possono autonomamente stabilire un tetto alle iscrizioni.

 

Se in molti Paesi esteri è normale che le università pongano un limite all’accesso, e quindi gli atenei hanno avuto tempi e modi per affinare i criteri di selezione: basti pensare al complesso sistema dei Paesi anglosassoni o dell’estremo Oriente. In Italia la cosa è invece relativamente recente: comprensibile quindi che i nodi da risolvere siano ancora numerosi. Le critiche piovono su vari fronti: dai contenuti dei test, giudicati spesso inadeguati a verificare le reali attitudini dei candidati, alle accuse di voler difendere privilegi di casta o attuare dei tagli “mascherati” all’istruzione limitando il numero di studenti.

 

Vista dall’interno, la situazione è più complessa. «Quando sono arrivata qui, nel 1985 – racconta Antonia Testa, ricercatrice presso la facoltà di medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma – ero stata attirata proprio dal numero chiuso, che all’epoca negli altri atenei non c’era, perché ritenevo che un ambiente più ristretto mi avrebbe permesso di formarmi meglio». La selezione, però, avveniva in maniera diversa: «Oltre al test scritto c’era anche un momento orale, per valutare la motivazione, le disposizioni psicoattitudinali e le capacità relazionali della persona, fondamentali nella nostra professione». Un ritorno al passato potrebbe quindi costituire un miglioramento, anche se si scontrerebbe con un limite storico del Bel Paese: «Temo – confessa la Testa – che un colloquio darebbe adito a raccomandazioni. Ma a livello ideale sarebbe una soluzione».

 

I test, inoltre, diventano spesso scarsamente gestibili anche per l’alto numero di candidati: «Qui ne sono arrivati più di cinquemila – riferisce la ricercatrice – e onestamente si sente il bisogno di porre un argine anche a questo». Un test standardizzato da fare al liceo, come proposto dal ministro Gelmini, potrebbe aiutare a fare una selezione “preventiva”: «Purché sia oggettivo, così che le disparità tra una scuola e l’altra non pesino. Accompagnando il tutto con una valutazione del curriculum di studi superiori». Nel sistema anglosassone, ad esempio, questo ha un peso notevole: l’accesso a ciascuna facoltà è determinato anche dalle materie studiate in precedenza.

 

Ma chi trae vantaggio dal numero chiuso? «Innanzitutto la società, grazie alla valutazione preventiva del numero di professionisti necessari» afferma la ricercatrice. Ossia, inutile formare più medici di quelli che servono, per non rischiare di fabbricare disoccupati. Poi lo studente, «che ha le risorse per intraprendere e soprattutto per portare a termine il suo percorso». Sono infatti ancora tanti coloro che non concludono gli studi, molto spesso perché si rendono conto che non era quella la loro strada. La Testa non ritiene, invece, che se ne avvantaggi “la casta”, «almeno non nella nostra professione. Non vedo tutto questo timore della “concorrenza”». Certo, il problema di chi rimane escluso esiste, «ma è un disagio che ritengo valga la pena di pagare».

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