Numeri da interpretare

Dati contraddittori da Istat e Svimez. Di fronte alla povertà che aumenta nel Sud servono scelte lungimiranti.
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Il risultato di un’analisi clinica vuol dire poco senza l’interpretazione di un medico competente in grado di offrire una diagnosi e una cura adeguata. Soprattutto quando i dati sono contraddittori. Come nel caso dei numeri che provengono dall’Istat e dalla Svimez. Secondo l’Istituto nazionale di statistica i dati della produzione industriale sono sorprendenti: i dati del maggio 2010 sono superiori a quelli dello stesso mese del 2009 nella misura del 26,6 per cento. Elemento trainante di tale crescita, il settore delle esportazioni.

 

Rischio estinzione industria nel Sud?

 

L’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno registra invece, da un anno all’altro, un crollo della produzione manifatturiera del 16,9 per cento: dato che conferma una costante decrescita, tanto da originare commenti sul rischio estinzione della produzione industriale nel Meridione. Le conseguenze sulla popolazione sono pesantissime: è a rischio povertà un cittadino su tre (quasi sette milioni di persone), contro uno su dieci nel Settentrione. Una famiglia su cinque non ha soldi per il medico, e il 30 per cento per i vestiti. Otto famiglie su cento rinunciano a beni alimentari necessari. Una situazione che sarà ancora più difficile dopo i tagli alle risorse per regioni e comuni, che incideranno inevitabilmente sulle spese sociali. A questo si aggiunge il problema del sommerso che non investe in attività produttive, per non parlare della grande criminalità che ha altri progetti a livello sovranazionali. Sarà interessante analizzare i dati dei prossimi anni per verificare quanto di ciò che è rientrato con lo scudo fiscale si rivelerà utile a liberare risorse per la produzione piuttosto che per la speculazione finanziaria o immobiliare.

 

Dati nazionali da rivedere

 

Ma anche i dati nazionali, secondo la puntuale analisi del professor Mario Deaglio riportata su La Stampa, possono trarre in inganno. Prendendo in esame i dati nell’arco di due anni e non di dodici mesi si può notare che la crescita appare vertiginosa solo perché la discesa è stata molto pesante nel 2009. Per tornare ai livelli pre-crisi occorrerà attendere il 2012, a condizione tuttavia di accettare una perdita di lavoratori del 6-8 per cento o comunque del potere d’acquisto di operai e impiegati. La vera questione, per Deaglio, è quindi non quella di farsi trastullare dai dati rassicuranti, ma di aprire un «ampio dibattito su ciò che questo Paese vorrà essere di qui a dieci o vent’anni».

 

Il destino del Sud nella riconversione verso l’economia verde

 

La crescita delle esportazioni rappresenta un dato incoraggiante, perché si riferisce a prodotti di alta qualità, non contrassegnati dal basso prezzo o livello inferiore di manifattura. Area dove avremmo fin troppi concorrenti, mentre secondo un economista liberista come Oscar Giannino la classe media dei Paesi emergenti aumenterà di due miliardi di individui da qui a vent’anni. Per chi e come produrre? I numeri aprono vari scenari e impongono delle scelte.

 

Un dato molto interessante ma trascurato del rapporto della Svimez è quello relativo alla cosiddetta green economy. Dal 2000 al 2008 «la potenza degli impianti e l’elettricità prodotta con le rinnovabili al Sud è cresciuta in modo sbalorditivo. Nel periodo in questione la potenza è cresciuta del 108 per cento nel Mezzogiorno e l’elettricità prodotta del 151 per cento, staccando di 3 e 4 volte il dato nazionale». Vengono così individuati settori come quelli «delle energie rinnovabili e del recupero edilizio, oltre alla valorizzazione del patrimonio paesaggistico meridionale», che possono offrire importanti opportunità di crescita attraverso «processi di riconversione industriale verso la produzione di nuovi beni in settori innovativi» in modo «da mettere a frutto i tanti giovani laureati altamente qualificati che non riescono ad essere assorbiti dal contesto produttivo».

 

Il destino del Sud, che è da sempre questione nazionale, non è perciò quello di attrarre, di fronte al deserto che avanza, facili e irresponsabili investimenti alla ricerca di bassi salari e precarie condizioni di lavoro. Non è giusto e neanche si rivelerebbe utile come strategia. Cosa sarà questo Paese da qui a dieci o vent’anni? Il dibattito è aperto e sempre più urgente.

 

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