Nostalgia, il passato che ritorna

Tutte le emozioni racchiuse nel ritorno alla propria terra, Napoli, vengono raccontate magistralmente da Mario Martone nella pellicola candidata agli Oscar
Nostalgia
Pierfrancesco Favino e il regista Mario Martone al festival, di Cannes 2022. (AP Photo/Daniel Cole)

Tornare, passato, ricordi, tempo, lontananza, radici, terra, casa, amicizia. Dentro questa manciata di parole cammina l’anima di Nostalgia: l’ultimo, potente, film di Mario Martone, presentato a Cannes lo scorso anno e poi proposto dall’Italia come candidato (del nostro Paese) per la corsa agli Oscar (senza riuscire ad arrivare fino in fondo: alla cinquina finale). A questo grappolo di vocaboli va aggiunto il termine del titolo: quella nostalgia, appunto, che li collega tutti, che li rende vivi, li umanizza, li riempie di emozioni contrastanti, aleggianti dentro i vicoli di una Napoli in lotta tra perdizione e speranza, tra un passato funereo e un futuro vitale.

Tra oscurità e luce, come quella che penetra a fatica le vene del Rione Sanità, dolorose e insieme splendide, di miseria e resistenza, di dolore e vitalità. Nel cuore di tutto questo, come sospeso, in cerca di una direzione e di un tempo perduto, tenero come un fanciullo e ottimista fino all’ingenuitá, con qualcosa che forse è incoscienza, forse disperazione, o forse solo invincibilità del desiderio, si muove un uomo non più ragazzo, che parla con accento arabo sopra un napoletano antico ormai quasi dissolto. Si chiama Felice (interpretato da Pierfrancesco Favino) e se ne andò da ragazzino, a 15 anni, da quel piccolo mondo fragile, pericoloso, non senza essersi gravemente ferito il cuore. Ora è tornato e si pone, chissà quanto consapevolmente, su una linea sottile tra vita e morte. Ha vissuto 40 anni in Libano e in Egitto, dove è diventato imprenditore, con successo. C’è una donna che lo ama, in quella terra per lui eternamente nuova. Mai casa. Una donna bella, elegante, autentica nei sentimenti.

Però Felice ha deciso di tornare, per riabbracciare casa vera, la sua terra, sperando di seppellire il passato torbido, possessivo, da cui proviene e da cui è scappato, col rischio di farsi da questo seppellire. Quel passato si racchiude dentro un nome: Oreste (Tommaso Ragno), un amico di vecchia data di Felice, un suo compagno di vita agli estremi, di scorribande e giri in moto, di risse e anche di un viaggio verso un punto tragico di non ritorno. Rimosso relativamente. Oreste è rimasto, a farsi divorare dal male, a diventarne capo, fiera, belva potente e braccata, a organizzare il crimine in ogni sua forma. A comandare alla Sanitá, a produrre lì la morte. C’è anche la vita, però, nei dedali di bassi e piazzette in cui felice riapproda. È quella per cui si batte il don Luigi Rega di Francesco Di Leva, che i giovani li prende e dentro la parrocchia gli fa persino fare palestra. Per farli scaricare e per tenere a distanza la ferocia del clan. Per non farli passare “con loro”. Costruisce un piccolo mondo luminoso, don Luigi, dentro quell’altro abbagliante e cupo, e Felice ne annusa la bellezza. Si lascia condurre dal parroco, inizia a sorridere, si riumanizza lentamente in una cena in trattoria, ha voglia di raccontarsi, di riacciuffare, prima del fuori tempo massimo, la vita che non ha potuto vivere. È una pulsione sempre più forte, vincente. Compra persino una casa, e invita sua moglie a raggiungerlo. Sembra spuntare il sole, tra quei vicoli.

Felice fa finta che il problema non ci sia, che Oreste metta prima la vecchia amicizia, l’umanità giovanile, di un presente con leggi violente e mortali. Spera nella forza di un passato buono, che uccida per sempre quello cattivo, e non ascolta le minacce, le mille voci che gli dicono di andare via. Di lasciar perdere. Vuole riabbracciare la sua terra, non fuggire più. Costi quel che costi. Ripulirla e amarla, come fa con sua madre, la grande Aurora Quattrocchi, appena giunge a Napoli. La trova piccola, indifesa, l’accudisce con amore e la lava, anche simbolicamente, come vorrebbe lavare le sue radici, i suoi luoghi, madre anch’essi, quel suo lontano vissuto perduto e cristallizzatosi in struggente nostalgia. Incontra Oreste, ci parla, il bene e il male, la prigionia e la liberazione tentano il dialogo, ma poi si risiedono ognuna al proprio posto, immobili, dentro questo nuovo ritorno ad una Napoli lacerata e pulsante, amata e indagata, a suo modo cantata, dal talento limpido e ancora crescente di Mario Martone. Stavolta poggiato sul libro omonimo di Ermanno Rea, dal quale nasce un film fatto di contrasti, anche tra purezza e corruzione, tra immobilità e cammino. È un film pieno di sentimenti profondi e quasi inafferabili, Nostalgia, narrato prendendosi il suo tempo, con accumulo sapiente di stati d’animo e giuste parole. È l’ormai solito, gigante, prezioso, cinema di Mario Martone.

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