Non si studia più come una volta

Secondo una ricerca californiana, il tempo che i ragazzi passano sui libri si è dimezzato in cinquant’anni. Uno spunto per interrogarsi anche sulla realtà italiana.
studenti liceo

Questa volta il merito è di alcuni ricercatori californiani. Dati alla mano, hanno affermato che i giovani studenti passano molto poco tempo sui libri di studio. In cinquant’anni il loro impegno si è dimezzato. Le cause? Almeno cinque a loro avviso. Prima causa, i professori sono meno severi; seconda, gli studenti sono agevolati dalla tecnologia; terza, l’interesse per il voto alto è assai diminuito; quarta, si studiano meno lingue straniere, che richiedono più tempo per l’apprendimento; quinta e ultima causa, i ragazzi leggono poco, preferendo alla lettura tv e new media.

 

Tutto ciò ha inciso sul sapere dei ragazzi, sempre più scarso. Sociologi, educatori e alunni non hanno avuto difficoltà a riconoscere la correttezza delle conclusioni dei ricercatori americani. Ma in Italia? In Italia gli studenti non ci stanno. A loro avviso un’ora e mezza di studio è già tantissimo. E poi, come sostiene sulle colonne de La Stampa Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della “Gilda degli insegnanti”, difficile credere che le lingue straniere possano incidere sulle ore di studio dei ragazzi che «le hanno sempre studiate con lo stesso impegno: poco ieri e poco oggi».

 

Il fatto è che davvero le nuove generazioni passano pochissimo tempo sui libri. E non sembra difficile riconoscere ai ricercatori americani buon naso, anche se con le debite precisazioni. È vero che gli insegnanti sono meno esigenti, ma di ciò bisogna ringraziare soprattutto l’ingerenza di genitori pronti a giustificare i propri figli a qualsiasi condizione. «Oggi a essere severi – afferma ancora Di Meglio – gli insegnanti rischiano lavate di testa pubbliche: ai colloqui arrivano padri e madri agguerritissimi». 

 

Discorso più complesso quello relativo alla tecnologia. Se infatti è indubbio che essa acceleri i tempi di studio, è altrettanto evidente che il suo utilizzo sia alquanto improprio. Una ricerca non è il frutto di un misero copia e incolla, ma di una intelligente elaborazione dei dati raccolti. Se poi i ragazzi trascorrono l’intero pomeriggio e spesso buona parte della notte su Facebook, è difficile non solo che trovino il tempo di leggere ma perfino la forza di tenere gli occhi aperti durante le lezioni. Nel qual caso è del tutto secondario che l’insegnante sia più o meno preparato.

 

 

L’ultima considerazione riguarda l’interesse per il bel voto. Se la società non premia il merito, se vanno avanti solo quanti hanno conoscenze e raccomandazioni, se in ogni caso bisogna vendersi (ed è questo il messaggio che passano i media), a cosa serve impegnarsi? Basta finire gli studi, poi una strada si troverà. Indubbiamente una simile questione interroga (come tante altre) l’intera società, che però non è ben chiaro chi o cosa sia. E dunque la questione finisce per non interpellare nessuno. In ogni caso, in assenza di una ricerca made in Italy che valuti meglio la situazione nostrana, i dati americani possono comunque costituire uno spunto per pensare con maggior serietà gli obiettivi educativi dei prossimi anni.

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