Non è il solito profugo

Il quotidiano tragitto per l'università incrocia la vita di uno dei migranti che staziona sempre al parcheggio. Ignorarlo è la cosa più semplice, offrirgli un'elemosina frettolosa mette in pace la coscienza, ma cosa succede se si decide di salutarlo
Un migrante in Grecia

«Ogni parrocchia accolga una famiglia di profughi» è l’ultima esortazione di Papa Francesco; peccato che la parola "profughi”, incorniciata da parole come allarme ed emergenza, riaccenda nella nostre menti il pacchetto di notizie preconfezionate con cui siamo quotidianamente bombardati e che stiamo cominciando a far cadere nell’oblio per istinto di sopravvivenza.

Il pur minimo desiderio di accoglienza a cui il Papa ci invita che si risveglia in noi, è spesso accompagnato da sentimenti di impotenza, allerta, paura, disorientamento e, ormai, assuefazione. L’emergenza profughi diventa il problema di cui preoccuparci quando accendiamo la Tv o leggiamo i giornali che ci ricordano che esiste, ma viene quasi messa sullo sfondo delle nostre frenetiche giornate, episodi di razzismo a parte, l’evidenza che le strade che calpestiamo tutti i giorni sono calpestate da una popolazione sempre più multietnica e multiculturale. La domanda che ho cominciato a farmi è: chi sono questi profughi? Che volto, che nome e che storia hanno? Di chi sono gli sguardi che incrocio, sui quali passo avanti senza neanche posare lo sguardo?

Quando sono all’università e parcheggio la macchina, c’è sempre un ragazzo di colore che mi rincorre per vendermi qualcosa. L’atteggiamento che più mi viene spontaneo è quello di salutarlo da lontano o addirittura fare finta di non vederlo o, se ormai è troppo vicino, dire che ho fretta ed andare via. Il secondo atteggiamento, quando la voce della coscienza comincia a far sentire una sorta di fastidio che mi richiama a fare qualcosa, è quello di allungare la mano per dare qualche spicciolo o qualcosa da mangiare. Tempo impiegato: mezzo secondo; senso di colpa: taciuto.

L’ultima volta, però, è stato diverso. Si è ripresentata la stessa scena: parcheggio la macchina, chiudo la portiera e mi sento chiamare. Decido, però, di comportarmi diversamente. Gli vado incontro, sorridendogli e lui mi domanda:  «Do you speak English». «Yes», rispondo. Vedo il suo sguardo illuminarsi. Ci presentiamo e subito mi fa cenno di comprare qualcosa. Io gli rispondo che non potevo perché non lavoravo e non avevo soldi miei da parte, ma una cosa potevo donargliela: un po’ del mio tempo per una chiacchierata. I suoi occhi non diventano tristi, il suo volto non si scurisce, anzi, si scioglie e comincia a raccontarmi di quanto faccia fatica a comunicare non avendo imparato bene l’italiano e non conoscendo noi italiani bene la lingua inglese. Da lì, poi, continuiamo a parlare dell’importanza di imparare più lingue per poter cercare un lavoro idoneo anche in Europa e scopriamo con il sogno comune di poter trovare un bel lavoro. Quando è il momento di lasciarci, ci salutiamo con un sorriso e, ringraziandoci a vicenda, ci promettiamo di riprendere la chiacchierata durante il prossimo incontro nel parcheggio.

Entro in università diversa, nuova. Mi sento piena. È incredibile come l’incontro con l’altro ti riempia la giornata e di come, allo stesso tempo, tu puoi essere il fattore di cambiamento della giornata dell’altro, chiunque esso sia. E questo accade perché ci siamo semplicemente accorti l’uno dell’altra. Ho sentito di aver fatto esperienza di come il fermarsi, il guardarsi negli occhi implichi un dirsi “mi sono accorta di te, mi sono accorta che esisti ed in questo momento stare con te è la cosa più importante”. Ecco che l’altro si sente amato, poiché si sente riconosciuto. Ed il bisogno di essere riconosciuti è equivalente al bisogno di mangiare. Donare un minuto in più del proprio tempo sazia la fame che ogni uomo ha di sentirsi amato ed amare.

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