No profit è bello

La crisi sta colpendo duramente i principi del foro americani. Così i giovani aspiranti avvocati, per la prima volta, guardano al terzo settore e alla pubblica amministrazione. Non solo un ripiego, ma anche un modo di impegnarsi per costruire una società più giusta.

È la crisi, bellezza: persino una delle carriere più prestigiose e remunerative d’oltreoceano – quella di avvocato – si sta piegando sotto i colpi della recessione. Secondo il blog Law Shucks, che ha un “contatore” dei licenziamenti nel settore, i maggiori studi legali d’America hanno lasciato a casa a luglio 604 persone, di cui 229 avvocati. Certo non sono i 3.682 di marzo, quando si è toccato l’apice; ma non c’è da stare allegri. Anche ad agosto, in pieno periodo di ferie, se ne sono andati 126 posti di lavoro.

 

Eppure sembrava un mondo dorato: un neolaureato assunto in uno studio di fama può arrivare ad intascare anche 160 mila dollari l’anno, ossia più di quanto guadagna il – magari attempato – giudice davanti al quale pronuncia le sue arringhe. Chi invece sceglie la carriera nel pubblico o nel terzo settore – studi no-profit che offrono assistenza legale a chi non si può permettere le parcelle dei principi del foro – guadagna al più circa un quarto. Tenendo conto che le facoltà di legge hanno rette che a volte superano i 40 mila dollari annui, e che ogni aspirante avvocato si laurea con una media di 80 mila dollari di debiti, anche chi si dedicherebbe volentieri a poveri ed emarginati, spesso deve lasciar perdere. Ma le cose iniziano a cambiare.

 

Nell’arduo sistema di selezione dei talenti con cui gli studenti americani si scontrano, giocano un ruolo chiave i colloqui di lavoro – sia per un posto stabile che per un semplice stage. La competizione è sempre stata spietata, soprattutto nel settore privato. E quest’anno lo sarà ancora di più: molti studi legali hanno disdetto i colloqui, e persino università come Yale e Georgetown li hanno visti ridursi di un terzo o addirittura della metà. Risultato: per la prima volta, il settore pubblico non è un’idea da scartare. La Social Security Administration, che l’anno scorso aveva ricevuto solo 800 richieste di colloquio, quest’anno ne ha avute più di duemila. La job fair – incontro tra studenti e datori di lavoro – del settore pubblico alla New York University era affollata come non mai. Amanda Stempson, studentessa a Georgetown, conferma: «Pensavo che sarebbe stato più facile entrare nel terzo settore, ma la scorsa primavera, nel fare domanda di stage, ho dovuto farmi largo tra un numero di richieste notevolmente più alto dell’anno passato». Così, meglio non aspettare: «Sto già facendo colloqui per l’estate prossima. E non sono l’unica».

 

E dire che fino a poco tempo fa gli atenei dovevano metterci del bello e del buono per convincere i giovani a dimenticare, almeno per un po’, l’odore dei soldi. La Harvard Law School (Hls), una delle facoltà di giurisprudenza più rinomate del Paese, dall’anno scorso offre l’esenzione dalle tasse per il terzo anno a chi si impegna a lavorare per almeno cinque anni nel pubblico o nel terzo settore. Chi cambia idea, deve poi saldare il debito. Nel 2009 hanno aderito 58 studenti su 550. Certo non è ancora possibile fare un bilancio, essendo appena partita l’iniziativa, ma c’è ragione di credere che i numeri aumenteranno: risparmiare 41.500 dollari – a tanto ammontano le rette – non è affatto male, specie se le prospettive di impiego nel privato non sono brillanti. La Hls richiede inoltre a tutti gli studenti di soddisfare il pro bono requirement, 40 ore di assistenza legale gratuita. Anche la Boalt School of Law, la facoltà di legge dell’Università di Berkeley, ha un curriculum di studi “per la giustizia sociale” – mirato a formare i futuri avvocati che intendono operare nei settori di interesse pubblico – e offre l’opportunità di rappresentare chi non si può permettere un avvocato, sotto la supervisione di un professore.

 

Eppure, sostiene Amanda, la crisi servirà anche a riscoprire che non esistono soltanto gli studi legali prestigiosi: «C’è chi crede che, poiché gli stipendi nel privato tenderanno a diminuire, gli studenti saranno meno stimolati a scegliere quella strada – afferma – ma io penso che la ragione per preferire il settore pubblico sia un’altra: è l’unica possibilità di trovare lavoro». E da lì si può sviluppare un genuino interesse per chi è meno fortunato: «A dire il vero, la mia idea iniziale era di occuparmi di diritto internazionale e diritti umani – racconta Amanda – ma poi tutto sembrava spingermi verso la ricerca della giustizia sociale nella mia città, non in un generico “mondo”». Così, per il suo primo stage, Amanda è tornata nella natìa San Francisco. Destinazione: Home Base, uno studio legale no profit che assiste i senzatetto, il cui numero è notevolmente aumentato con la crisi. «Posso dire che è stata una buona estate» ammette. «Ho lavorato con entusiasmo, imparato molto sul terzo settore e sui problemi sociali della mia città. Ora mi sento notevolmente più motivata nel proseguire gli studi». La cosa più importante che le è rimasta? «Ho imparato che le cause dell’ingiustizia sociale sono varie e complesse, ed è su quelle che dobbiamo lavorare. Non basta assistere chi ha già perso la casa, bisogna far sì che non la perda». E cita Martin Luther King: «La vera compassione è più che dare una moneta ad un mendicante, è capire che un sistema che produce mendicanti va cambiato». Per dare il suo contributo in questo senso, Amanda collaborerà con una pubblicazione universitaria che si occupa di diritto e povertà: «Lavorare per questo giornale mi aiuterà ad identificare delle opportunità per far germogliare questi semi di cambiamento nella professione legale». Certo i dubbi sul futuro rimangono: «Mi chiedo dove questa scelta mi porterà – ammette Amanda – ma sono fiduciosa. Perlomeno, credo di aver trovato la mia strada». Anche se non è coperta d’oro.

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