Nato: spese e ruolo italiano

Chiuso il vertice londinese dell’Alleanza Atlantica con l’impegno all’aumento degli investimenti in campo miliare. Intervista a Luciano Bertozzi sulle scelte di bilancio del nostro Paese

La giornata Onu di protezione dell’infanzia è ormai passata, ma resta sempre attuale il lavoro del saggista e giornalista Luciano Bertozzi condensato nel suo testo I bambini soldato. Lo sfruttamento globale dell’infanzia. Il ruolo della società civile e delle istituzioni internazionali. Una prospettiva di analisi che chiama in causa l’influenza del cosiddetto complesso militare industriale sulle nostre democrazie.

Tema di forte attualità dopo il rinnovato accordo sulle sinergie industriali confermate nel vertice Nato di Londra, nonostante le polemiche registrate nell’Alleanza Atlantica, in particolare tra gli Usa e la Francia oltre che con il Canada. Resta confermato, in tal senso, l’impegno dell’Italia, nel raggiungere il 2% del Pil in spese militari. Un impegno che porterebbe la spesa giornaliera da 68 a 100 milioni di euro.

Ne abbiamo parlato con Luciano Bertozzi, esperto in spesa per gli armamenti, editorialista per il mensile dei comboniani Nigrizia.

Cosa emerge a suo avviso nel dibattito politico italiano in vista della prossima legge di bilancio?
Si parla molto di economia verde, ma a ben vedere la realtà è un’altra: attualmente gli unici soldi spendibili sono quelli per l’ammodernamento delle Forze Armate. In questi giorni, nelle Commissioni Bilancio e Difesa di Camera e Senato, ci sono 15 programmi relativi al settore militare che spaziano dal programma ‘Soldato sicuro’ ai nuovi aerei e elicotteri per sette miliardi di euro da spalmare in 10-15 anni. Si assegnano commesse a industrie spesso decotte, a prescindere dal merito delle esigenze operative delle Forze Armate. Va considerato che le spese in armamenti ricomprendono anche il capitale umano, ovvero menti sottratte alla ricerca nel campo della mobilità sostenibile, sanità e scuola, settori che potrebbero migliorare la qualità della vita degli italiani.

Quali sono le ragioni all’origine di tali scelte?
Purtroppo, la tendenza dei governi italiani, in perfetta continuità di schieramenti politici, è stata quella di puntare sull’industria legata alla difesa come scelta strategica di sviluppo dell’economia. Anche la presidente della nuova Commissione Europea, nelle sue linee guida, ha individuato un fondo apposito proprio per sviluppare l’industria europea degli armamenti. In tal modo si promuoverà un forte sviluppo della ricerca militare con ricadute ovvie sulla ricerca civile, che diminuirà proprio perché le competenze che potrebbero sviluppare grandi innovazioni in questo settore verranno dirottate su quello militare.

D’altra parte, si sostiene che se l’Italia non partecipasse ai progetti di ricerca legati alla ricerca in campo militare perderebbe un treno importante rimanendo indietro nella competizione con la Francia.
Il discorso semmai va capovolto. Durante il fascismo l’Italia produceva armi di ogni tipo, ma una volta cessata la guerra sia il nostro Paese, sia la Germania che il Giappone, sono diventate potenze economiche a livello globale proprio perché si sono riconvertite dal militare al civile. Ad esempio un’azienda come la Piaggio, che al tempo della guerra fabbricava aerei quadrimotori, si è riconvertita producendo la Vespa divenendo un leader mondiale. Si tratta di scelte politiche e chiaramente industriali. Oggi le industrie militari stanno in piedi soltanto grazie alle commesse del governo.

Come valutare il grado di trasparenza nei processi che conducono ad operare scelte di fondamentale rilevanza politica?
Esiste un problema di informazione. In questo senso ringrazio la vostra testata perché svolge un lavoro prezioso
. In primis è chiaro che, in assenza di consapevolezza, difficilmente si può pensare di incidere. Al tempo stesso il panorama politico è sempre più omogeneo. Su alcuni temi sembra di sentire una sorta di mantra. Anche i 5 Stelle, che proponevano un ritiro dell’Italia dalla missione in Afghanistan, un taglio delle spese militari, la cancellazione delle forniture degli aerei F-35, i più costosi della storia del volo, una volta al governo hanno ridimensionato molto queste aspettative, pur essendo il partito principale di maggioranza e pur avendo espresso un ministro della Difesa. Si pone un problema di pensiero unico.

Con riferimento alla questione delle bombe italiane destinate alla guerra in Yemen, si profila il rischio licenziamenti per la fabbrica della Rwm. Come si esce dalla logica del lavoro come strumento di ricatto?
Il nodo vero è la riconversione
. Per realizzarla c’è la necessità di una svolta politica. In tal senso credo molto nell’azione dal basso. Se si riuscisse a far convergere le forze dei sindacati, delle comunità locali e della società civile, probabilmente qualcosa si potrebbe modificare. Oltretutto gli affari nel comparto militare sono effimeri. Ricordo che un Paese come l’Arabia Saudita, nel giro di pochi anni sarà quasi autosufficiente rispetto alla fornitura di armi, per cui inevitabilmente saremo destinati a ridurre di molto le commesse. Questi mercati esteri, oltre ad alimentare la proliferazione di armamenti in maniera incontrollata, non danno garanzia di stabilità nel corso del tempo. Se vogliamo essere una democrazia credibile dobbiamo assumerci l’impegno di portare avanti una politica estera coerente, farci promotori di valori di libertà, uguaglianza, rispetto dei diritti umani, nella prospettiva di costruire un’Europa unita, con una visione differente rispetto a quella di Usa, Russia e Cina.

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