Musica e buona tavola per incontrarsi

A Roma il 15 giugno la festa conclusiva del progetto “Profumi e sapori della tradizione rom”: un'occasione per conoscere delle “persone”, non solo un popolo
festa rom

Chi si aspettava di trovare ragazze vestite con lunghe, coloratissime gonne – magari pure un po’ sgualcite perché, si sa, gli “zingari” mica si vestono bene – o bambini sporchi di fango ha dovuto ricredersi: alla festa conclusiva del progetto “Profumi e sapori della tradizione rom”, organizzata da Romà (non Roma, prego, anche se ha sede nella capitale) onlus c’erano ragazze in jeans che sognano di fare le modelle o le ballerine, e ragazzini che sembrano usciti da un concerto dei Tokyo Hotel. Indossano i loro abiti tradizionali giusto il tempo di una danza. Quando chiediamo loro dove vivono, ci rispondono con il nome di uno dei campi romani: campi in cui spesso la vita inizia alle sei del mattino per andare a procurarsi due taniche d’acqua, tanto che «alle otto già sei stanco». Eppure sono qui a ballare sulle note della coinvolgente musica romanì, e a servire i cibi tipici della loro tradizione: «Vuole della pitta? Oppure preferisce dell’agnello? Delle verze ripiene? Li ho fatti io!». Non aspettano la risposta, mettono nel piatto un po’ di tutto. Servirà ballare a lungo per smaltire, ma ne vale la pena.

 

Il progetto è stato finanziato nell’ambito del programma Youth in action dell’Unione Europea, ed ha lo scopo di «sfatare i luoghi comuni e i pregiudizi, prendendo per la gola le persone»: sin dal 2008, giovani cuoche tra i 16 e i 25 anni hanno messo in piedi un originale servizio di catering – il Romanò Hapè – con il sostegno di Romà onlus, con lo scopo di far conoscere questa antichissima tradizione culinaria. Ma la loro attività si allarga anche alle campagne di informazione, alle iniziative volte a favorire la partecipazione attiva dei giovani rom nella società civile, a quelle per aiutarli ad avere un’istruzione: perché, pochi lo sanno, ma per molti di loro è impossibile – anche dopo un percorso scolastico regolare – ottenere un titolo di studio. «Molti giovani, pur essendo nati qui – ci racconta Paola, romana, che ha fatto la scelta coraggiosa di vivere per cinque anni in un campo dopo aver sposato un ragazzo rom – non hanno un documento, perché non sono cittadini italiani, ma non vengono riconosciuti come tali nemmeno dagli Stati dell’ex Jugoslavia da cui i loro genitori sono venuti, perlopiù durante la guerra». O anche in tempi in cui la Jugoslavia era ancora tale, con l’evidente impossibilità di chiedere un passaporto ad uno Stato che non esiste più. «Senza un documento – prosegue – non è possibile fare l’esame di maturità, iscriversi all’università, fare la patente, avere un regolare contratto di lavoro». Tanto più, dunque, hanno un grande valore progetti di inserimento come questi, che uniscono la festa, la buona cucina, la buona musica e l’incontro.

 

Sono rom serbi, bosniaci, cristiani e musulmani, «ma ci sentiamo parte di un unico popolo – spiega Nada – anche se perfino la burocrazia insiste a dividerci, classificandoci per nazionalità nei censimenti». Malena, musulmana, mediatrice culturale, è stata all’incontro con il Papa il giorno di Pentecoste: «Per me Dio è il Dio di tutti, cristiani e musulmani». A colpirla, come per tutti gli altri partecipanti, è stato il saluto rivolto loro da Benedetto XVI in romanès, la lingua che li unisce – tanto che molti non parlano neppure la lingua del Paese che hanno lasciato. Lingua che qui si mischia al romanesco, dando luogo a ibridi originalissimi.

 

Ma è soprattutto la musica a parlare, complice un talento per la danza che sembra essere naturale: io ci provo, ma anche se – a detta loro – «non ci sono passi nelle danze rom, basta che segui il ritmo e muovi i fianchi, vedi?» il risultato non è lo stesso. Non importa: conta di più che per la prima volta la mia borsa è rimasta incustodita su una sedia anche in presenza di “zingari” – e sì, soldi, cellulare e carta di credito c’erano ancora. Certo era un contesto “scelto”, forse in un campo sarebbe stato diverso: ma almeno ora, per me e per gli altri partecipanti, dietro all’etichetta “rom” ci sono dei nomi e delle persone. Il che non risolve certo i problemi che questo popolo affronta e quelli di convivenza che ancora si pongono, ma è un primo passo.

 

Per informazioni sulle attività della Romà onlus, clicca qui.

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