Milano, l’esercito non è la soluzione

Lo scrivono, in una lettera indirizzata al sindaco Giuseppe Sala, i rappresentanti della scuola di italiano per stranieri di villa Pallavicini, che chiedono anche interventi urgenti e concreti per le periferie
Il prefetto Alessandro Marangoni

Milano violenta, la città che uccide, le bande dello spaccio, dei furti dei scippi e delle rapine. Milano che invoca una maggior presenza di militare per “stemperare” il clima di paura che corre nelle sue strade e tra le sue piazze. La città dai quartieri ghetto, regno del malaffare e delle bande rivali.

 

Il sindaco Sala che si rivolge al governo per ottenere più presenza di militari a pattugliare le strade e che subito dopo però rassicura i cittadini: «Non c’è nessun allarmismo, i dati dicono che Milano non è insicura, anzi è più sicura di tante altre città italiane». Perché creare allarmismo tra la popolazione, quando lo stesso primo cittadino dice che la metropoli è più sicura di tante altre città italiane?

 

È difficile capire, farsi un’opinione. Interpretare quanto accade all’interno del palazzo e fuori nelle strade. Certamente non è semplice, ma sono tante le associazioni, i gruppi di volontari, le Onlus che operano da anni gratuitamente perché la convivenza – il meticciato – per dirla con il cardinale Scola, stranieri di diversi Paesi possano coesistere pacificatamene.

 

“La città di Milano e le terre lombarde sono e saranno sempre più abitate da tanti nuovi italiani (immigrati di prima, seconda e terza generazione). Saranno chiamate a fare i conti con il processo storico (sottolineo processo storico e non progetto sincretistico) di meticciato di civiltà e di culture, a mostrare la capacità di rispettare la libertà di tutti, di edificare il corpo ecclesiale e un buon tessuto sociale trasmettendo fede e memoria. Il nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico. I molti frammenti ecclesiali e civili che già oggi anticipano la Milano del futuro sono chiamati a lasciar trasparire il tutto. L’insieme – ha concluso Scola – deve brillare in ogni frammento a beneficio della comunità cristiana e di tutta la società civile. Vita buona e buon governo vanno infatti di pari passo”. Così nel discorso alla città del 2012, successivamente ripreso in ogni occasione in cui ha parlato di integrazione, tolleranza, accoglienza.

 

Anche il suo predecessore, il cardinale Martini, vent’anni prima indicava come unica sfida per il nuovo millennio il dialogo tra le culture. E in questo dialogo c’è chi ha investito il meglio. Tra questi, gli insegnanti volontari della scuola di italiano per stranieri di Villa Pallavicini, che si trova in via Meucci, in fondo a via Padova, dalla parte opposta di Piazzale Loreto.

 

Da anni il loro impegno nei confronti degli immigrati si nutre della convinzione che il loro lavoro debba basarsi su due semplici parole: accoglienza e scambio. Quando, all'indomani del recente omicidio accaduto in piazzale Loreto hanno sentito le parole del sindaco Sala che auspicava un intervento dell’esercito sono rimasti sgomenti. Presa carta e penna hanno scritto una lettera al primo cittadino per denunciare ancora una volta che l'intervento dell'esercito non è la soluzione per i cittadini di Milano.

 

Ma fanno rilevare che, in questi anni, l’amministrazione comunale per le periferie ha fatto poco o nulla, lasciando prosperare e radicalizzare situazioni dì illegalità, ora divenute insostenibili per tutti. E questo con buona pace dei propositi espressi in tutte le campagne elettorali. “Ciò detto, secondo noi – spiegano nella lettera – degrado e abbandono non si battono con le camionette dell'esercito. Noi che lavoriamo da tanti anni in questa zona e vediamo centinaia di donne e uomini non italiani, desiderosi di apprendere la nostra lingua, di lavorare, di avere una casa e di inserirsi nella società in modo dignitoso, sappiamo che la risposta ai bisogni e al degrado non è un soldato in più. Nella nostra scuola, gestita da volontari, i problemi sono di avere spazi, lavagne, libri, penne, quaderni. Quando a sera gli studenti escono dalla nostra sede e percorrono via Padova, imbattersi in una camionetta non li rassicura, se mai evoca tristi scenari di distruzione vissuti nei loro Paesi dai quali sono fuggiti. Anche a molti italiani le camionette non piacciono, suscitano la sgradevole sensazione di trovarsi in un clima di allarme e di pericolo".

 

"Nei nostri corsi di italiano – aggiungono – ogni giorno incontriamo persone intelligenti, acculturate e preparate le cui competenze potrebbero costituire per il nostro Paese una ricchezza, oggi sono persone abbruttite progressivamente dalla frustrazione e da una vita di stenti. Alle loro spalle hanno storie difficili, drammatiche, minori arrivati da soli dopo giorni di gommone, giovani e donne traumatizzati, in fuga da violenze che tutti possono immaginare. Nessuna di queste persone voleva andarsene dal proprio Paese e poiché il fenomeno è inarrestabile e la soluzione non si troverà brevemente, occorre pensare a soluzioni che facciano vivere in modo accettabile e dignitoso tutti, vecchi e nuovi abitanti delle trascurate periferie delle metropoli. L'integrazione, la convivenza civile, la prevenzione dei crimini e un territorio "pulito" dove tutti possano vivere rispettandosi e senza paure, si costruiscono con lo scambio, la comunicazione, la cultura, la possibilità di parlare la stessa lingua. È un percorso lungo, forse, anche lento, ma che darà frutti importanti per tutti, italiani e non italiani”.

 

La lettera termina con l’invito al sindaco ad andare nella scuola durante le lezioni o i corsi, oppure alla festa di Natale il prossimo mese per  vedere e toccare con mano che cosa si fa ogni mattina e sera nella sede, come in molti altri luoghi di via Padova, ricca di risorse, associazioni, volontari e persone che lavorano per renderla migliore. L’invito all’amministrazione comunale è anche a farsi veramente carico di via Padova (e delle periferie in generale), per cambiare il paesaggio di questi luoghi, per farlo diventare un esempio di convivenza pacifica e dignitosa. Un primo passo? Si può cominciare col tenerla più pulita, mettendo cartelli in lingue diverse, organizzando iniziative culturali, coinvolgendo la cittadinanza, potenziando i luoghi che già fanno pratica di integrazione.

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