Mamme No Pfas, ecologia integrale e recovery fund

Sit in davanti al ministero dell’Ambiente per chiedere limiti zero delle sostanze Pfas negli scarichi industriali. Tavolo tecnico fissato per il 29 ottobre anche con Confindustria. Il nodo delle strategie necessarie per bonifiche e riconversioni economiche
Foto no pfas

Quale è il limite tollerabile di sostanze tossiche nell’acqua che usiamo? “Zero”, rispondono dal coordinamento delle mamme No Pfas scese a Roma per parlare con il ministro dell’Ambiente Sergio Costa.

Sono arrivate dal Veneto dove è esploso il caso della presenza nelle falde acquifere degli inquinanti chimici Pfas in una vasta area che coinvolge centinaia di migliaia di persone. Non sono militanti ecologiste o sostenitrici di teorie della decrescita, ma semplicemente donne e famiglie che vogliono difendere la salute dei loro figli. Il mondo intero gli è caduto addosso quando hanno visto i valori sballati delle loro analisi cliniche. Chi poteva immaginare di introdurre dei veleni con l’acqua, l’elemento primario senza il quale non c’è vita?

L’esito di una sbagliata industrializzazione sono note da tempo, ma è prevalsa, di fatto, l’idea di un costo necessario per assicurare lo sviluppo economico. Ora che tutti parlano di svolta verde e new green deal è possibile chiedere l’applicazione del principio di precauzione e bandire l’uso di tali sostanze nei processi produttivi?   Sembra una proposta ragionevole, sostenuta da tanti altri comitati di cittadini come quello nato a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, dove esiste un grande stabilimento della Solvay, multinazionale della chimica accusata di far uso di tali componenti, come dimostrerebbero i rilevamenti degli scarichi industriali. Qui sono in gioco mille lavoratori dipendenti dalla società controllata dalla casa madre belga. Insomma l’eterno dilemma tra lavoro e salute usato per impedire la ricerca di soluzioni alternative perché troppo costose e tali da non reggere la concorrenza internazionale di un mondo dove le regole cambiano da Paese a Paese. Ad esempio anche dopo il disastro dell’Eternit nella vicina Casal Monferrato, l’uso dell’amianto non è stato ancora bandito a livello globale.

È chiaro che il problema si può affrontare solo mettendo assieme le istanze dei diversi territori in una prospettiva internazionale. L’estensione della rete delle mamme no Pfas a livello nazionale e il collegamento con il movimento statunitense va in questa direzione. Si son ritrovate assieme sotto il ministero dell’Ambiente situato sulla via Cristoforo Colombo a Roma. La delegazione è stata ricevuta anche se non ha potuto incontrare il ministro Costa, con il quale ci sono stati precedenti incontri diretti, e neanche l’esperto sottosegretario Roberto Morassut, ma i componenti della segreteria tecnica. Con tutta la loro buona volontà i rappresentanti ministeriali hanno ricordato che esistono altri portatori di interesse in materia e che comunque una delegazione sarà invitata al tavolo consultivo che si costituirà il 29 ottobre per definire il Collegato ambientale 2020, cioè un percorso normativo che dovrebbe definirsi in un anno con l’approvazione del Parlamento.

Tempi decisamente troppo lunghi per chi si aspetta decisioni immediate di fronte ad un danno eclatante. La convocazione entro il mese risponde alle richieste dei comitati di accelerare i tempi per «un confronto diretto fra Regione Veneto, Ministero dell’ambiente, Istituto superiore di Sanità, ISPRA e Confindustria».

Tra questi soggetti evocati, Confindustria è l’unica a non aver accettato, finora, un dialogo o un confronto con le mamme no Pfas mentre ha lanciato l’allarme della messa in pericolo, in caso dell’adozione di limiti zero, per l’esistenza di 4 mila aziende della chimica e della concia nel solo Veneto.

Eppure le madri, che indossano magliette bianche con il nome dei figli e i valori abnormi delle sostanze dannose trovate nel sangue, sono culturalmente lontane da quel pregiudizio anti industriale lamentato spesso da Carlo Bonomi, attuale presidente nazionale dell’associazione degli industriali. Chiedono ciò che si afferma in tutti i convegni ufficiali e cioè che le imprese si orientino verso scelte responsabili «che non mettano al primo posto il profitto a discapito dell’ambiente e della nostra salute».

Ma per arrivare a tali risultati occorrono investimenti strategici in linea con il recovery plan sostenuto con le risorse dell’Unione europea. Un appuntamento unico e imperdibile che richiede unità di intenti ad ogni livello per essere effettivo: regionale, nazionale ed europeo. Le bozze del ministero prevedono ad esempio il limite massimo 20 mila nanogrammi/litro per i diversi composti pfas negli scarichi industriali, nel Veneto il limite è posto a 2 mila nanogrammi/litro, mentre a Bruxelles si consuma uno scontro tra istanze ambientaliste e i numerosi lobbisti della chimica.

La scelta della regione guidata da Luca Zaia, riconfermato in maniera plebiscitaria nelle ultime elezioni, è significativa dell’attenzione ad una problematica locale ma non è comunque il livello zero. L’intera vicenda è destinata ad emergere man mano che verrà approfondita la responsabilità della gestione dell’inquinamento prodotto dalla fabbrica Miteni di Lonigo (VI), ora dismessa.  Secondo Alberto Peruffo, storico ambientalista che cura un sito molto aggiornato in materia (pfas.land/), la Regione avrebbe «agito con estremo ritardo e avallando tale produzione tossica per molti, troppi anni». Per avvalorare tale tesi rimanda ad una serie di inchieste da approfondire, dato che si tratta certo di limitare i danni futuri ma anche di bonificare le falde contaminate. Impresa assai complessa, onerosa e di difficile attuazione.

Il sit-in no Pfas si è svolto per 2 giorni nel parcheggio davanti la sede del ministero, tra le macchine che sfrecciano veloci. Non proprio una vetrina ideale, ma l’iniziativa ha avuto un largo seguito nella piazza virtuale dei social che, con la pandemia in corso, abbiamo visto suscitare nuovi legami. Segnali incoraggianti di un cambiamento reale possibile.

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