Made in the world . Dialogo disarmato sul lavoro

Affrontare il conflitto dentro la globalizzazione dell’indifferenza con la non violenza che comincia tra i rapporti tra i sindacalisti. Seconda parte dell’intervista a Stefano Biondi sull’incontro “Liberiamo il lavoro” in programma dal 16 al 18 ottobre al centro internazionale Mariapoli di Castel Gandolfo (Roma)
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Con Stefano Biondi abbiamo iniziato ad approfondire le ragioni che hanno condotto, dopo un paziente cammino decennale, ad organizzare, dal 16 al 18 ottobre 2015 a Castel Gandolfo(Roma), presso il Centro internazionale Mariapoli, il convegno “Liberiamo il lavoro. Alle radici dell’esperienza sindacale”. Iniziativa promossa dall’associazione culturale “Made in the world”. Con Biondi siamo partiti da Simone Weil e don Milani per arrivare alla crisi dell’esperienza sindacale odierna. Anche papa Francesco, tornando dalla Bolivia, parlando dei movimenti popolari ha detto che si tratta di una realtà «che non si sente rappresentata dai sindacati, perché dicono che i sindacati adesso sono una corporazione, non lottano – adesso sto semplificando un po’ – ma l’idea di tanta gente questa gente è che non lottano per i diritti dei più poveri».

Come si spiega, senza semplificazioni banali, questa perdita di presenza del sindacato? Come e quando è iniziata questa involuzione?

«Ilsindacalista è un’espressione della collettività ed è questa che è pervasa dalla concezione utilitaristica; chiamo cioè il sindacato quando sono in pericolo ma una volta risolto bene o male il mio problema, torno a fare gli affari miei. È la riduzione della solidarietà tra i lavoratori ad una attività di agenzia di servizi che pago tanto quanto può essermi di aiuto. In questa maniera possiamo comprendere anche il fenomeno dell’esplosione dell’azzardo che è una ricerca ossessiva della salvezza individuale per raggiungere un livello di vita conforme al modello vincente».

Eppure intervistato a caldo sul suo ultimo stipendio da ex leader della Cisl, Savino Pezzotta ha dichiarato un reddito medio di 2 mila e 400 euro nette al mese ….

 «Negli ultimi anni c’è stata, in effetti, una involuzione del senso autentico di fare sindacato per come l’ho conosciuto io fin da ragazzo e cioè che l’attività sindacale non portava vantaggi, voleva dire impegnare molto tempo senza alcuna convenienza personale perdendo possibilità di carriera in azienda. Il problema è sorto quando si è affievolita la spinta verso la partecipazione diretta dei lavoratori nella vita del sindacato ridotta ad un sistema di delega che ha impedito la pratica di una democrazia interna capace di andare oltre la conta corporativa degli iscritti per aprirsi sui territori e dare rappresentanza alle istanze di giustizia sociale come quelle dei lavoratori precari e sfruttati. In questi ultimi anni ha prevalso il ritorno a forme di sindacato corporativo che si contende gli iscritti per i servizi che è capace di offrire».

La democrazia interna è ciò che prevedeva l’articolo 39 della Costituzione ..

«E, invece, l’organizzazione è andata curvandosi verso forme dove i rappresentanti vengono selezionati dalla burocrazia e dalla nomenclatura interna piuttosto che dalla scelta diretta degli iscritti, la stessa patologia che affligge i partiti».

Se questa è la fotografia della situazione attuale, cosa volete fare come associazione di riflessione sindacale ?

«Riteniamo urgente e indispensabile andare alle radici di questa esperienza. Alle sue prime motivazioni. Non è immaginabile cambiare senza ritornare alle origini, al Dna. È quello di provare ad andare alle radici dell'esperienza sindacale considerata non come realtà contingente perché l’idea e la forma, seppur in modi molto diversi, attraversa tutto il corso della storia dell'umanità. La prima traccia della presenza sindacale si trova su di una stele egizia di 5 mila anni fa. È come un fiume carsico che appare e sparisce e riemerge in forme nuove a seconda del momento storico…

Ma all’origine del sindacato non esiste il conflitto? La ribellione di un insieme di soggetti che non accettano la sottomissione sul lavoro e rivendicano dei diritti?  

 «Il conflitto è una dimensione inevitabile, ineludibile anzi direi necessaria nella relazione umana e non si può negare dentro la melassa di certe forme di compartecipazione che assegnano sempre ai lavoratori una posizione subalterna. Il problema è il valore che attribuiamo al conflitto, le modalità e il contesto in cui si svolge. Ciò che cambia la prospettiva è il modo in cui vivo il conflitto e le regole d’ingaggio. I poveri e i deboli della storia non possono usare nel conflitto i mezzi, l’aggressività, il sopruso, l’intolleranza le modalità esercitate dai forti e dai prepotenti di questo mondo, si condannano alla sconfitta certa nel medio lungo periodo anche se nel breve può sembrare che possano prendere il sopravvento, questa è la lezione della storia. La “lotta”, forte caparbia determinata intelligente è necessaria e giusta ma deve essere condotta con altri metodi, metodi non violenti, questo è un campo ancora inesplorato eppure ci sono esempi luminosi e vincenti, penso, per esempio, a quelli di Gandhi e di Mandela».

Come si può proporre la non violenza davanti ad un potere prevalente?

«Davanti alla sproporzione delle forze in campo, i più poveri e deboli possono prevalere solo se rifiutano di usare le armi dei prevaricatori e dei potenti. Se poi pensiamo alle dimensioni della globalizzazione attuale è chiaro che le giuste lotte hanno bisogno di modalità efficaci e creative perché lo scontro non può essere fine a se stesso.  Ci vuole un grande sforzo di unità sindacale a partire dalla ragioni profonde delle diverse tradizioni culturali per trovare modi di azione su scala globale. Vuol dire che nelle mie richieste devo tener conto delle ragioni della giustizia su scala planetaria e non accontentarmi di portare a casa un risultato positivo di corto respiro. È la prospettiva seguita da anni nella Cisl internazionale da persone larghe vedute come Cecilia Brighi e Gianni Alioti. In ciò è evidente l’assenza, in genere, del sindacato sulla questione epocale delle migrazioni. C’è una paura di perdere iscritti perché i lavoratori vedono i pericoli di una concorrenza verso il basso di soggetti disposti a tutto pur di guadagnare di che vivere».

È la svolta che vissero negli Usa di inizio secolo scorso, gli “International workers of the World” che rifiutarono il sindacato di categoria al grido “un torto atto a uno è un torto fatto a tutti “. Dove e come può ripartire ed è già presente l’esperienza originaria del sindacato nel contesto della “globalizzazione dell’indifferenza”? 

«Dobbiamo ripartire proprio da questa nostra incapacità nell’offrire una visione globale del rispetto dei diritti umani, della pace e dell’ambiente senza accettare conflitti innaturali tra i lavoratori dei diversi Paesi. Dobbiamo partire da una grammatica comune, da una base etica sulle ragioni profonde del proprio agire mantenendo ognuno la propria identità. Dobbiamo creare dei luoghi dove poter ragionare assieme sui problemi accettando il confronto senza competizione tra le sigle per motivi di potere e non certo per motivi di pensiero o di ideali. La vera tragedia sono queste appartenenze fragili senza convinzioni profonde».

Quale sarà il metodo proposto nell’incontro “Liberiamo il lavoro”?

«Sento che tutti coloro che ancora credono nell’azione necessaria del sindacato dovrebbero agognare di trovare finalmente un luogo dove poter parlare liberamente senza l’ansia da prestazione come avviene in un talk show televisivo che ha le sue ferree regole interne di immagine.  Bisogna liberarsi dal virus della competizione (che ci è ostile per sua natura e ci porta sempre più verso l’affermarsi di un darvinismo sociale dove solo il più forte ha diritto di vivere) e guardarsi negli occhi senza timore a partire dalle proprie radici e poter dire “voglio darti il meglio di me” per ritrovare assieme la strada»

 

programma del convegno allegato

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