L’uomo dell’istante

Nella Copenaghen di Søren Kierkegaard, accompagnati da un romanzo di geniale introspezione psicologica
Copenhagen

«Splendida, splendida Copenaghen, bianca sirena del Nord…» cantavamo negli anni Cinquanta sulle note di un successo internazionale di Frank Loesser. “Bianca sirena” lo è di certo quando s’ammanta di neve. In realtà le facciate dipinte di tante dimore storiche fanno della capitale danese una delle più vivaci e colorate città d’Europa. Splendida però lo è davvero Copenaghen, affacciata sullo stretto di Øresund (Mare del Nord) col suo nucleo antico ricco di edifici e chiese monumentali,  coi suoi  fiabeschi palazzi della monarchia e i magnifici parchi, ma anche con le sue ardite architetture moderne: quasi una città ideale dove «i danesi – informano certe pubblicità turistiche – sono stati capaci di costruire una delle società più felici del pianeta».

 

A questo punto, fresco di lettura di un romanzo sulla vita di Søren Kiergeggard, che a Copenaghen trascorse la maggior parte della sua breve vita, mi è sorta una domanda: se vivesse oggi il grande filosofo, teologo e scrittore danese, cosa penserebbe di questa descrizione idilliaca, lui che con toni violenti – e pagando di persona per l’ostilità e la derisione che gliene vennero – stigmatizzò il cristianesimo mondanizzato del vescovo Mynster, le cui prediche eleganti accarezzavano gli animi senza provocare alcun cambiamento di vita?

 

L’uomo dell’istante (è il titolo di questo testo edito da Iperborea) sorprende per lo scandaglio operato dall’autore, Stig Dalager, nell’interiorità di colui che viene considerato il “padre” dell’esistenzialismo (1813-1855). Il riferimento è alla concezione che Kierkegaard  ha dell’"uomo estetico", per il quale ogni atto è come se fosse eterno: egli non ha memoria nel senso che non ha presenti alla mente né il passato né il futuro, perduto totalmente nello stato d'animo senza essere in grado di controllarlo. Nel suo agire non c'è un principio e una fine, ma ogni momento ha valore per sé stesso e non in funzione di un futuro che ne sarà effetto e di un passato che ne è causa. L’istante è anche il titolo della rivista finanziata dal filosofo, negli ultimi anni della sua vita terrena, con ciò che rimaneva delle proprie sostanze.

 

In breve la vicenda. La rigida educazione pietistica ricevuta da un padre ossessionato dal senso del peccato e le tragedie familiari (cinque fratelli morti quando lui non era ancora ventenne) fanno di Kierkegaard un uomo spasmodicamente riflessivo e roso dal tarlo della malinconia, pur non mancando di uno spiccato senso dell’ironia. Unico modo di sublimare il peso dell’eredità paterna, l’apertura verso il trascendente. Per lui l’angoscia dell’uomo deriva dal sentirsi inadeguato, anzi impossibilitato a realizzarsi staccato da Dio. Consapevole delle sue tare e per non renderla infelice, il giovane Søren rinuncia all’amore di Regine Olsen (del resto la sua sete di assoluto non potrebbe appagarsi nell’ambito ristretto di una famiglia) e quando lei si oppone alla rottura del fidanzamento, per convincerla di non esserne degno assume atteggiamenti odiosi. Inutilmente il suo sacrificio si colora di falsità: Regine intuisce e non cessa di amarlo, anche se finirà per sposare il proprio precettore Schlegel. Nei casuali incontri durante una passeggiata, nei silenziosi scambi di sguardi, entrambi vivranno di questo amore purificato che ha il timbro dell’eterno; amore che sarà linfa ispiratrice per tutte le opere di Kierkegaard, gli infonderà forza nelle sue battaglie (contro la filosofia anticristiana di Hegel e il vuoto formalismo della Chiesa danese), come pure gioie ineffabili, pur fra le spine d’un cammino in salita. Il quale si conclude a soli 42 anni in una casa di cura, forse in seguito ad una paralisi progressiva del midollo spinale.

 

E proprio dal giorno del ricovero di Kiergegaard al Frederikshospital prende l’avvio il romanzo. Mentre si avvicina all’eternità assistito da una amorevole infermiera, egli rivive a sprazzi frammenti del suo passato intarsiati da estratti dai suoi scritti. Prende forma così, come da un puzzle, l’intera esistenza di questo votato alla verità, che forgia in solitudine libri come frecce per la sua faretra, ma sa anche intrattenersi amabilmente con la gente della strada, in un susseguirsi di episodi di cui non manca mai la risonanza interiore. Ne vien fuori l’uomo Kierkegaard col suo genio e i suoi limiti; soprattutto col suo immenso bisogno di amare ed essere amato. Come confessa nell’addio all’amico Emil: «Salutami gli uomini, li ho amati tutti quanti, e di’ loro che la mia vita è stata un’enorme sofferenza, sconosciuta e incomprensibile agli altri. Tutto appariva come orgoglio e vanità, ma non lo era. Non sono meglio degli altri, non ho fatto che ripeterlo».

 

E si staglia anche, vivida come in un dipinto o in una stampa d’epoca, la Copenaghen ottocentesca con la sua gente, le sue atmosfere, le sue voci, i suoi odori. Con Søren percorriamo i quartieri eleganti e quelli popolari; lo seguiamo nei bellissimi giardini, lungo i canali specchio delle sue architetture, sopra e fuori i bastioni (poi demoliti per arieggiare la città dopo un’epidemia di colera), negli ameni dintorni e fin nel verde raccoglimento di Assistens, il cimitero dove oggi riposa col suo contemporaneo Andersen.

 

Per giorni, terminata la lettura, mi sono sentito come “abitato” dal personaggio Kierkegaard divenuto ormai familiare, parte di me.

 

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