Lorin Maazel, il mago

Ci mancherà il grande seduttore delle orchestre dalla memoria prodigiosa e dalla tecnica invidiabile: rendeva felici gli orchestrali e sapeva conquistare il grande pubblico. Ha diretto tutto e tutti, incantando
Lorin Mazeel

Se n’è andato inaspettatamente per lui, forse, e per noi, certamente. L’anno scorso l’avevo visto dirigere a Santa Cecilia a Roma: il passo era svelto come sempre, il busto eretto, il capo slanciato all’indietro (come Stokowski, altro gran narciso della musica), quando levava la lunga bacchetta con un gesto amplissimo, suadente. Era un gran seduttore delle orchestre, Lorin Maazel. E ha diretto tutte le più importanti, da quando era ragazzino, violinista prodigio a cinque anni, direttore ad otto, sponsorizzato dal severissimo Toscanini ad undici che lo “benedisse”. Da allora, una carriera vertiginosa, oltre 300 incisioni, un tutto Mahler, Beethoven, Brahms, Ciaikovski, ossia il grande repertorio sinfonico. Maazel non si è fatto mai mancare niente nella musica (ed anche nel privato, sette figli da tre matrimoni). Ha diretto tutti e tutto.

In verità aveva una quantità enorme di talenti. Memoria prodigiosa, tecnica invidiabile, fascino sul podio: gli orchestrali erano felici con lui. Gli dava sicurezza col gesto chiarissimo, trasmetteva il suo innamoramento per la musica e per il “bel suono”. Era una sorta di mago, anche nell’Opera: Lohengrin, Tristano, Traviata, Aida, Don Giovanni… In un certo senso era una sorta di d’Annunzio della direzione orchestrale. Tutto gli veniva facile, naturale, spontaneo.

Ma quest’ebreo russo nato a Parigi 84 anni fa era uomo di vasta cultura. Simpatico affabulatore dalla voce sonora, gentiluomo perfetto dal sorriso accattivante e con quegli occhi grigio-verdi magnetici. Consapevole del suo talento e del suo successo, ad un certo punto era però diventato un direttore di classe e di lusso, un compositore apprezzato anche, ma tendeva all’esteriorità nelle sue interpretazioni degli ultimi anni, diventando un eccelso uomo di spettacolo a livello internazionale.

La differenza con i grandi colleghi era evidente: se Giulini minimizzava gesti e tempi in un specie di estasi, se Savallisch diventava ancor più preciso, se Abbado viveva in un incanto rinnovato, lui pareva avvicinarsi all’ultimo Karajan: compiaciuto del bel suono, della ricchezza timbrica, del flusso dell’orchestra di cui era l’incantatore.

Era il suo pregio, ed il suo limite. Ci mancherà la figura slanciata, la chioma candida, la bacchetta trascinante e armoniosa. Ma resteranno le sue incisioni, specie quelle dei primi decenni del secondo ‘900, dove Lorin Maazel è sé stesso davvero, colui che estrae dalla musica la luce che c’è dentro. Non é poco, per un direttore.

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