Livello 7: incidente catastrofico

La lotta per riportare sotto controllo la centrale nucleare danneggiata è ancora lontana dalla conclusione. L’inquinamento della catena alimentare. La necessità di un coordinamento mondiale.
Fukushima

Dunque alla fine ci siamo arrivati: la gravità dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima è stata portata a 7, il livello massimo finora raggiunto nella storia solo una volta, con l’incidente di Chernobyl. L’indicatore, peraltro solo qualitativo, prevede a questo livello un notevole rilascio di materiale radioattivo, con conseguente elevato pericolo per la salute e l’ambiente circostante. Bisogna anche dire che la situazione è molto diversa da quella di Chernobyl, per il tipo di reattore (a grafite) allora in uso: infatti questa volta la nube radioattiva inizialmente rilasciata è arrivata in Europa con un livello di pericolosità trascurabile.

 

Quello che ancora una volta colpisce, però, in questo incidente, al di là dell’oggettiva violenza della prima scossa, seguita da uno tsunami di enorme forza distruttiva, è la difficoltà di gestire una centrale nucleare quando le condizioni non sono ottimali. Eppure il Giappone è uno dei paesi più efficienti che si conoscano, ma tante cose non hanno funzionato; addirittura sembra che a Fukushima non ci fossero piani di emergenza adeguati.

 

In più, il vero incubo per gli addetti agli impianti, sottovalutato all’inizio, è ormai chiaramente il contenimento dell’acqua utilizzata per il raffreddamento del nucleo e delle piscine di stoccaggio delle barre di uranio. Tra crepe nei contenitori e pompe inefficaci per mancanza di corrente, l’acqua radioattiva continua a sfuggire da tutte le parti, accumulandosi dove non dovrebbe e contaminando tutto, comprese le sale delle turbine. Alcuni operai che nei primi giorni ci sono venuti in contatto sono rimasti ustionati: questo dà un’idea del livello di contaminazione del liquido. Non sapendo come trattarla, e per evitare che si accumulasse troppo, la Tepco, la ditta che gestisce l’impianto, alla fine ha cominciato a scaricarla nell’oceano. Se a questo si aggiungono i getti di acqua di mare utilizzata per raffreddare i reattori dall’esterno, si calcola che potrebbero essere finite nell’oceano qualcosa come 11 mila tonnellate di acqua più o meno radioattiva.

 

Non ci sono molti precedenti di inquinamento di questo tipo: venti anni fa proprio il Giappone protestò per lo scarico in mare, da parte della Russia, dei residui liquidi del ciclo delle sue centrali nucleari. Si sa che i pesci sono forti accumulatori di sostanze radioattive, accumulo che aumenta salendo nella catena alimentare con altri pesci e volatili. Considerando i tempi necessari perché queste sostanze radioattive riducano la loro pericolosità, tempi che per il Cesio sono per esempio di decine di anni, è chiaro che a lungo il settore ittico giapponese sarà nei guai. E non solo quello ittico. L’inquinamento del territorio è ancora tutto da valutare per un’area di decine, se non centinaia, di chilometri.

 

Un’ultima considerazione riguarda la globalità di un incidente di questo tipo. La paura del nucleare, in parte irrazionale, in parte basata su solide argomentazioni rinforzate dall’incidente di Fukushima, probabilmente dipende anche dal fatto che, quando inizia, un’emergenza come questa diventa immediatamente planetaria, vuoi per la nube radioattiva che viaggia ad alta quota da un continente all’altro, vuoi per l’inquinamento della catena alimentare che è difficile valutare dove arrivi e per quanti anni duri, vuoi per le ricadute sulla politica energetica di tutti i paesi del mondo. E’ un tipo di energia, insomma, quella nucleare, che non può essere lasciata alla decisione e alla gestione (buona o cattiva) del singolo stato. E’ ormai tempo che ci sia un coordinamento mondiale delle politiche energetiche e dei controlli conseguenti.

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons