L’Italia può farcela anche grazie al cinema

L’Oscar a La grande bellezza di Sorrentino non è un caso isolato dei festival, Le meraviglie di Alice Rohrwacher vince il gran premio della Giuria a Cannes
Cannes 2014

Anche se fosse soltanto un segnale (ma è indubbiamente qualcosa di più) andrebbe oltre la settorialità del mondo della celluloide per assumere i contorni di un messaggio chiaro e inequivocabile: l’Italia (tutta l’Italia, non solo quella che si anima sul grande schermo) può farcela e riprendersi dalla crisi che l’affligge con la forza della volontà,  senza timori e senza incertezze, percorrendo vie che le sono congeniali   come quelle della qualità. Perché Le meraviglie di Alice Rohrwacher (interpretato dalla sorella Alba), prima ancora di una sfida come quella del piccolo Davide (il film a basso costo supportato da una intensa componente poetica) al gigante Golia (la mega produzione hollywoodiana) è la dimostrazione che l’intelligenza, la sincerità di ispirazione e la professionalità pagano. A dispetto della potenza economica e dei mezzi profusi senza risparmio.

Doppia soddisfazione, poi (e prova del nove di questo teorema) perché il Grand Prix conquistato al 67° Festival di Cannes dimostra che l'Oscar a La grande bellezza di Paolo Sorrentino non è stato un caso isolato, ma la conferma che il cinema italiano non è prossino alla bancarotta, ma ha in sé tutte le possibilità di voltare pagina e di riprendersi.

Le meraviglie ha dimostrato inoltre di avere una marcia in più rispetto agli altri film finiti nell’elenco del “palmarès”, e questa marcia sta nel giusto equilibrio tra forma e contenuti in un quadro generale dove l’eleganza stilistica e la ricerca estetica sembrano prevalere sulla sostanza e sulle cose da dire. Alla base de Le meraviglie c'è infatti la disamina di una tendenza attuale che pone l'accento sull’isolamento individuale rispetto alla ricerca di un dialogo con l’altro e con la società intera. Tutto questo attraverso la messa a fuoco di un microcosmo separato dal mondo, un universo agricolo dove, proprio come aveva fatto Paolo Sorrentino ne La grande bellezza, la partita si gioca sulla contrapposizione di opposti elementi per tessere l’ordito di un nucleo familiare (padre, madre e quattro figlie) filtrato attraverso un realismo magico che sottolinea i motivi del conflitto generazionale, del contrasto fra individuo e società, del romanzo di formazione adolescenziale.   

L’identico tema dell’isolamento e della chiusura in se stessi per proteggersi dalla soffocante presenza del mondo esterno e dalle ferite del passato è affrontato dal turco Nuri Bilge Ceylan (noto in Italia per Uzoq e C'era una volta in Anatolia) in Winter Sleep, film rarefatto e pregnante, dove il paesaggio desolato di un deserto nevoso si fonde con l’attesa sfibrante di qualcosa che non si realizza. Scenario ideale della crisi esistenziale vissuta da un attore da tempo lontano dalle scene, scandita da lunghi silenzi che ne accentuano il senso di un’angoscia ossessiva.

Di tutto spessore i premi per i migliori attori. All’inglese Timothy Small per Mr. Turner diretto da Mike Leigh, che interpreta con magistrale aderenza quel complesso e tormentato personaggio che era il pittore William Turner, celebre paesaggista dell’Ottocento, e all’americana Julian Moore per Maps to the stars del canadese David Cronenberg.

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