L’Italia nel Rapporto Eurispes

Cosa emerge dall'ente che si occupa di studi politici, economici e sociali  nella 32esima edizione del Rapporto Italia. Nostra intervista a Nicola Ferrigni, sociologo.    

«Ancora una volta l’Eurispes ha fotografato puntualmente lo stato di salute del Paese», sostiene il prof. Nicola Ferrigni, sociologo, docente presso la Link Campus University, rivolgendo parole di apprezzamento nei confronti dell’Istituto e del suo Presidente, Gian Maria Fara, con cui in passato ha collaborato.

Dai dati del Rapporto Eurispes 2020 emerge, tra l’altro, il problema di un linguaggio diffuso basato su odio e razzismo e, rispetto al 2004, si registra l’aumento delle persone che pensano che la Shoah non sia avvenuta (il 15,6% la nega, il 16,1% ne ridimensiona la portata in termini di vittime). Abbiamo intervistato il prof. Ferrigni proprio partendo dal tema del crescente clima di intolleranza.

Prof. Ferrigni, dal Rapporto emerge che, negli ultimi 10 anni, sono peggiorati i rapporti degli italiani con i migranti: aumentano coloro che li percepiscono come una minaccia all’identità culturale, come coloro che tolgono lavoro agli italiani. Può commentare questo dato?

Questo acuirsi di un sentimento negativo nei confronti degli immigrati e dello straniero in genere purtroppo è un dato che segue il clima che stiamo vivendo. I fattori sono due: da una parte abbiamo una società sempre più individualista, più chiusa e di conseguenza questo chiudersi a riccio nel proprio contesto – per un puro spirito di sopravvivenza cui purtroppo si è portati – tende a vedere nello straniero, nell’altro diverso da noi, un nemico. A questo aggiungiamo il clima alimentato quotidianamente in particolare da uno degli esponenti politici. Questo atteggiamento è diseducativo nei confronti della società, è un modello che fa molto male e induce a non vivere l’esperienza dello straniero come un processo di integrazione e soprattutto di ricchezza per il Paese. L’integrazione è il termine che utilizziamo come processo in sociologia, ma per me lo straniero è una fonte di ricchezza e di crescita culturale se vissuto con uno sviluppo congiunto.

Su questo tema, a suo parere, gli italiani sono più influenzabili o timorosi?

Siamo sicuramente influenzabili perché la paura, la diffidenza nei confronti dello straniero è cresciuta esponenzialmente nell’ultimo anno e mezzo, sin da quando alcuni politici hanno indirizzato la paura verso un nemico da abbattere e hanno spostato l’attenzione dai problemi centrali per il Paese allo straniero. Hanno manipolato il pensiero e manipolare vuol dire influenzare. La manipolazione è la variabile principale, però non dimentichiamo il contesto in cui viviamo, in cui gli italiani – abbiamo sentito da Eurispes – hanno difficoltà a risparmiare, a pagare il mutuo di casa. In un clima così precario è facile individuare il nemico.

I dati sulla sicurezza riportano che – mentre il 53,2% degli italiani ritiene di vivere in una città abbastanza (44,1%) e molto (9,1%) sicura – i giovani dai 18 ai 24 anni segnalano un livello basso di sicurezza (poco o per niente sicura per il 33,3%). Come mai?  

La percezione di sicurezza è un sentimento, è una emozione ed essendo tale non corrisponde necessariamente alla realtà. I dati dicono anche che al Sud si percepisce un livello più alto di insicurezza, ma con Gratteri abbiamo visto la più grande operazione contro la criminalità organizzata degli ultimi 15/20 anni. La chiave di lettura è: il senso di insicurezza afferisce non alla sicurezza intesa nel senso stretto di criminalità, ma è un senso di insicurezza sociale, di instabilità, di insicurezza economica, relazionale, familiare, che viene sintetizzata in un sentimento di insicurezza della città. È una società che non dà più la sicurezza del vivere e il giovane è più colpito perché ha più instabilità, non vede un futuro. L’Italia è un Paese che ha bisogno di ridefinirsi, ridisegnarsi.

Il 52,4% degli italiani è d’accordo a estendere l’obbligo scolastico fino alle scuole superiori e molti reputano negativo ridurre il numero delle Università. Vuol dire che la cultura è ancora importante per gli italiani?

La cultura per fortuna continua ad essere la soluzione ai problemi e il dato mi conforta. Il problema, però, non è legato all’obbligo amministrativo, ma a cosa insegnare a scuola, perché purtroppo negli ultimi 10/15 anni non si è capito dove stesse andando la cultura, il lavoro, le imprese, quindi c’è stato un modello formativo scolastico distante, obsoleto rispetto ai bisogni della società attuale.

Perché i giovani vorrebbero che i programmi scolastici, più che i grandi eventi storici (47,6%), privilegiassero i fatti della storia recente (52,4%)?

Il giovane è meno interessato ai grandi eventi perché vengono vissuti come un modello scolastico un po’ distante dalla necessità di oggi. A scuola molto spesso il giovane studia programmi fermi a un’era fa e questo è un limite. La formazione, nei contenuti, è distante da un fabbisogno reale, ecco perché c’è anche il problema dell’occupazione. Il dati sul lavoro si focalizzano a un’analisi quantitativa, ma la questione è capire quale sia il fabbisogno della società, quale sia il sistema di formazione di cui si ha bisogno. Rispetto al passato, quando i giovani vengono all’università hanno già avuto un approccio di studio, seppur online, alla materia. La formazione deve individuare il loro bisogno al di là della conoscenza teorica del manuale. Oggi la cultura ha un senso molto più ampio, vuol dire anche intercettare il cambiamento repentino.

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