L’India cancella la cittadinanza a quattro milioni di musulmani

In seguito ad un provvedimento del governo, sono numerose le persone attualmente residenti nello stato dell’Assam che rischiano di dover rientrare nel Paese di origine o, comunque, di non essere riconosciuti come cittadini indiani

Il confine fra il Bangladesh e l’India ha sempre rappresentato un problema aperto. Si tratta di uno dei confini più porosi dell’Asia e forse del mondo. Da decenni esiste un costante movimento migratorio verso il Bengala occidentale e l’Assam, due fra gli stati indiani che condividono i confini con quello che, geograficamente, è il Bengala orientale, che costituisce il Bangladesh. Ricordo nei primi anni 2000 che una personalità della Chiesa cattolica nella zona di Siliguri, capitale di uno dei distretti al confine fra i due stati indiani, mentre costeggiavamo un fiume, mi mostrava la dinamica del fenomeno. «Dall’altra riva – in Bangladesh – si passa con molta facilità qui da noi. Ed una volta che si è qui, è facile perdersi nei villaggi circostanti. I tratti somatici, il modo di vestirsi sono praticamente identici. Solo l’accento del bengalese è diverso, ma migliaia di persone si infiltrano ogni giorno».

Il problema era iniziato in modo evidente durante la guerra di indipendenza del Bangladesh, appoggiata dall’India che non aveva mai accettato il compromesso voluto dagli inglesi di essere praticamente chiusa a Ovest e a Est da un Paese nemico, il Pakistan, Occidentale ed Orientale. I flussi sono continuati per decenni anche a causa delle condizioni economiche disperate del nuovo Paese che, dopo l’indipendenza, è rimasto a lungo fra i più poveri del mondo. Nei due stati indiani del Bengala e dell’Assam vivono quindici milioni di Bangladeshi, alcuni ormai di seconda, terza e anche quarta generazione.

 

La premessa appena fatta aiuta a capire quanto sta succedendo in queste settimane in India dove circa quattro milioni di persone, attualmente residenti nello stato dell’Assam, rischiano di dover rientrare nel Paese di origine o, comunque, di non essere riconosciuti come cittadini indiani. Dovranno, infatti, dimostrare di essere entrati in Assam prima del 1971, anno della dichiarazione d’indipendenza del Bangladesh. Questa la decisione del governo indiano che nelle scorse settimane ha provveduto alla pubblicazione dei registri anagrafici dell’Assam secondo quanto previsto dal National Register of Citizens – l’elenco ufficiale dei cittadini indiani regolarmente registrati e quindi riconosciuti come tali -. Si tratta di un elenco creato in base ad una legge degli anni Cinquanta del secolo scorso che ha permesso di stilare l’elenco dei cittadini indiani regolarmente registrati, dopo il censimento realizzato nel 1951, il primo dopo l’indipendenza dell’India. Il registro in questione riporta i dettagli di ogni abitante: nome, età, cognome, abitazioni di proprietà e altri beni.

In effetti, come spiegato, il flusso di migranti è continuato incessantemente in questi decenni. Già nel 1972 India e Bangladesh avevano firmato un trattato d’amicizia, cooperazione e pace che però non era servito a rallentare il flusso migratorio. Negli anni ’80, la situazione si era aggravata e con milioni di bengalesi fuggiti dalla guerra, la situazione dell’Assam e del Bengala indiano era state portate all’attenzione dell’allora premier Indira Gandhi. Alla fine, il 15 agosto 1985 si è arrivati all’Accordo dell’Assam che avrebbe dovuto regolare la registrazione degli abitanti. In base al protocollo, erano considerati cittadini indiani tutti i bengalesi entrati in India tra il primo gennaio 1966 e il 24 marzo 1971 (giorno prima della data d’indipendenza del Bangladesh) e quelli che possono provare di essere discendenti diretti dei rifugiati, ma a condizione di essere nati in India e di risiedervi in maniera permanente. L’aggiornamento dei dati del registro con i dati raccolti tra il 2014 e il 2016 ha scatenato la crisi attuale. In base alle recenti disposizioni governative, la popolazione avrà tempo per registrare i documenti dal 30 agosto al 28 settembre. Dopo di che, potrebbe scattare l’espulsione. Questi i fatti fino ad oggi.

La situazione, tuttavia, pare essere molto più complessa e parte di giochi politici che vedono l’attuale governo indiano guidato da Surendra Modi giá orientato verso le prossime elezioni del 2019. Infatti, secondo molti osservatori e i partiti dell’opposizione, la pubblicazione dell’elenco e le recenti disposizioni governative rappresenterebbero un tentativo del governo fondamentalista indù del Bharathya Janata Party (BJP) di avvantaggiare la maggioranza indù a scapito delle minoranze, modificando gli equilibri religiosi della popolazione dello stato con l’eliminazione di una grossa fetta di cittadini di fede musulmana. Infatti, la stragrande maggioranza di coloro che sono entrati in India dal Bangladesh sono musulmani. Questo processo, messo in moto dalle disposizioni governative, andrebbe a vantaggio della maggioranza indú ovviamente favorevole al governo attuale. Nello Stato vivono 33 milioni di persone e sono sempre state – e continuano ad essere – frequenti gli scontri tra maggioranza, gruppi etnici e la guerriglia indipendentista naxalite (termine usato per indicare i comunisti maoisti indiani). I bengalesi, in gran parte musulmani, vivono nelle zone paludose del fiume Brahmaputra e i loro documenti, ammesso che ci siano, non sono mai completi e registrati secondo la normativa. Il ministro degli Interni del governo centrale, l’on. Rajnath Singh, ha invitato a non diffondere il panico perché «non verrà attuata alcuna azione di forza contro nessuno». Tuttavia, molti gruppi di attivisti e l’opposizione politica fanno notare che le procedure per presentare i documenti potrebbero richiedere molto tempo. «Pare che solo i musulmani – dice uno degli attivisti – debbano passare attraverso un processo così complicato e ingiusto, senza diritto a ricevere sostegno e con la paura di dover andare via se dovessero perdere».

Particolarmente accesa anche la posizione del Chief Minister dello stato del Bengala indiano, l’on. Mamata Banerjee, una politica di lunga data, capace di scalzare il monopolio governativo del Partito Comunista che ha governato nel Bengala indiano ininterrottamente per diversi decenni. La Banerjee, nota come la ‘tigre del Bengala’ per la sua vivacità ma anche per la sua capacità di non arrendersi mai, ha accusato platealmente il governo dell’on. Modi di «voler dividere la popolazione. Nel Paese si arriverà ad un bagno di sangue e alla guerra civile». Sebbene in questo momento la dichiarazione della Banerjee pare essere esagerata è bene ricordare che la zona fu teatro di eccidi spaventosi durante la partizione fra India e Pakistan, proprio perché avvenuta su base religiosa. Il Pakistan era stato creato per la popolazione musulmana. Resta il fatto che queste decisioni del governo Modi creano tensioni e giocano su elementi, come il fatto religioso, che risultano decisivi nell’agenda politica del BJP che con l’attuale Primo Ministro ha adottato l’agenda interna dell’Hindutva, l’India come Paese degli indú.

Decisioni come quella che coinvolge ora questi quattro milioni di cittadini musulmani non fanno altro che acuire le tensioni e confermare il senso di insicurezza delle minoranze aumentando il malessere sociale, sia pure a fronte di una immagine di un Paese in rapida ascesa economica, in pieno sviluppo che mira a continuare ad incrementare investimenti stranieri.

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