Libia senza pace?

Libia in cammino verso l'unificazione. Tra complicazioni e difficoltà, il processo di pace e di riunificazione sta procedendo: designati i vertici ad interim del Paese con il compito di traghettarlo verso le elezioni generali concordate per dicembre di quest’anno. Segui la diretta Facebook lunedì 1 marzo ore 18,30.
Funerale nella capitale libica, dopo il raid aereo che ha colpito il collegio militare di Tripoli (AP Photo/Hazem Ahmed)

Dal 5 febbraio scorso il processo di pace e di riunificazione della Libia ha indubbiamente fatto ardui ma decisi passi avanti. Facendo seguito alla Conferenza di Berlino (gennaio 2020) e al cessate il fuoco del 23 ottobre, il 5 febbraio a Ginevra, con il sostegno dell’Onu e la mediazione dei 75 membri libici del Forum di dialogo politico designati dalle parti, e del Comitato militare congiunto dei 5+5 rappresentanti del Lna di Bengasi e del Gna di Tripoli è stato possibile designare i membri del Consiglio presidenziale ad interim che dovrebbe traghettare la Libia verso la riunificazione e consentire le elezioni generali, che sono state concordate per il 24 dicembre 2021.

I candidati designati, che guideranno gli organismi governativi ad interim sono: Mohammad Younes Menfi come capo del Consiglio presidenziale, e i suoi due vice Mossa al-Koni e Abdullah Hussein al-Lafi.

Alla guida del governo è stato invece nominato Abdul Hamid Dbeibah. La prossima scadenza è la presentazione entro il 26 febbraio della squadra di governo, a cui seguirà il 19 marzo il voto di fiducia del Parlamento riunito, che ricuce le due parti separate, quella di Tripoli e quella di Bengasi. I leader attuali hanno accettato di ritirarsi e sostenere i nuovi vertici designati.

 

Può sembrare un procedimento complicato (anzi più che sembrarlo, lo è), ma ogni passo, se vuole avere un seguito, va misurato e concordato tra molti interlocutori: non solo quelli espliciti, ma anche quelli ufficiosi per non parlare di quelli esterni (noti e meno noti), soprattutto dopo 10 anni di guerra.

Proprio in questi giorni ricorre infatti il decimo anniversario di inizio della cosiddetta rivolta libica contro Muammar Gheddafi (era il 15 febbraio 2011), il rais che per oltre 40 anni aveva dominato il Paese. Fino a che punto si sia trattato di una rivolta interna è molto difficile dirlo, dato che vi intervenne addirittura la Nato, Italia compresa, in pompa magna (con retorica mediatica giustificativa al seguito). Rivolta che culminò, si fa per dire, il 20 ottobre 2011 nell’entroterra di Sirte con la caccia al convoglio del rais in fuga: Gheddafi fu individuato e segnalato da droni statunitensi, attaccato da aerei militari francesi, raggiunto e massacrato da ribelli libici, che misero tutto online.

A seguire 10 anni di guerre (al plurale) alle quali si sta cercando adesso di mettere una buona volta la parola fine. Chi più di tutti sta cercando di finirla sono i libici, e si può anche capire. Tanto più che i problemi di 10 anni fa sono ancora tutti là, e se ne sono inevitabilmente aggiunti di nuovi: espansionismi e controllo del Mediterraneo orientale compresi.

Nella roadmap degli accordi di pace era compreso il ritiro, entro il 23 gennaio 2021, di tutte le forze straniere presenti in Libia. Non è successo: sono ancora tutti là. Secondo le stime dell’Onu, i combattenti stranieri presenti attualmente in Libia sono circa 20 mila, e si trovano prevelentemente nelle basi di Sirte, al-Jufra e al-Watiya. Più che di militari si tratta di truppe mercenarie: così in qualche modo i jihadisti siriani collocati dalla Turchia con finanziamenti del Qatar (Paesi vicini ai Fratelli musulmani) a sostegno del Gna di Tripoli. Così i contractor russi della Compagnia Wagner che appoggiano il governo di Tobruk-Bengasi e l’Lna, e sono sostenuti direttamente o indirettamente da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Francia, Russia e perfino dalla Giordania, che non può esimersi almeno formalmente.

Ed è andata anche bene che non si è aggiunto anche un ulteriore gruppo di mercenari, quello dello statunitense Erik Prince, già sostenitore dell’ex presidente Usa Donald Trump ed ex proprietario della Compagnia Academi (Blackwater). Secondo alcuni investigatori Onu, la manovra di inserire contractor e armi (per 80 milioni di dollari) a sostegno dell’Lna, ad un certo punto non è riuscita.

In questi giorni, il nuovo premier designato libico, Abdul Hamid Dbeibah, ha preso contatto anche con il Presidente del Coinsiglio italiano, Mario Draghi, auspicando uno sviluppo delle relazioni tra Libia e Italia specialmente nella gestione delle migrazioni e nell’economia. Dbeibah ha scritto su twitter: “Aspiriamo a sviluppare la nostra relazione privilegiata con la vicina Italia, con la quale condividiamo molte sfide, tra cui in particolare la gestione e organizzazione della migrazione”.

Questo è certamente un punto caldo per quanto riguarda le relazioni Italia-Libia, anche se certamente non l’unico. Come gli italiani sanno (ma molti senza forse comprenderne bene il retroterra), il mare fra la Libia e l’Italia è una delle aree di transito più frequentate da chi aspira a raggiungere l’Europa, pur essendo una delle rotte di profughi più pericolose del mondo (un morto ogni sei persone che tentano la traversata).

Solo l’anno scorso (2020), circa 12 mila persone sono state intercettate e riportate indietro dalla Guardia costiera libica. Secondo l’Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), l’Ue ha speso almeno 90 milioni di dollari solo per finanziare e addestrare la Guardia costiera libica, al fine di bloccare il più possibile le traversate.

Associated Press sostiene che l’Ue ha complessivamente inviato in Libia circa 328 milioni di dollari negli ultimi anni. Nonostante questo, però, sono arrivati in Europa (Unhcr) nel 2020 più di 94 mila migranti (circa 41 mila in Spagna, 31,1 mila in Italia, 15,5 mila in Grecia, 3 mila a Malta e mille a Cipro). Comunque meno di quanti arrivarono nel 2019 (127 mila).

Su questo tema, però, sarebbe fondamentale che i due Paesi (Libia e Italia) affrontassero il fenomeno non solo come problema umanitario (già piuttosto grave di per sé), ma soprattutto come cause che lo provocano. E fra esse, oltre alla povertà, emerge sempre di più anche la fuga di molte persone dal Sahel, terra di conquista da parte dello Stato islamico e di al Qaeda.

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Lunedì 1° marzo ore 18 e 30 con:

Pasquale Ferrara, Ambasciatore e Inviato speciale del ministro degli Esteri per la Libia

Nello Scavo, inviato Avvenire

Candela Copparoni, corrispondente Città Nuova dalla Spagna

Bruno Cantamessa, corrispondente Città Nuova dal Libano

Modera:

Aurelio Molè

Caporedattore Città Nuova

 

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