Libano, il coraggio della speranza

È difficile e faticoso vivere in Libano, fra crollo dell’economia, Covid e mancanza di lavoro. Ma è il sistema Paese ad essere ammalato: dopo un anno e mezzo non si riesce a varare un governo. La proposta del patriarca maronita.

Scrivere del Libano oggi mi fa male al cuore. E allo stesso tempo amo troppo questo Paese per lasciarmi andare ai lamenti, reazione più che comprensibile per come stanno andando le cose, o non andando. Neppure voglio cedere alla tentazione di accusare qualcuno di essere responsabile della distruzione del Paese, quello dove vivo anche se non ne ho la cittadinanza. Ho anche ben presente che quando ho chiesto e ottenuto la Carta di Soggiorno, ho firmato una dichiarazione in cui mi impegnavo a non dire male del Libano. E non lo farò, non potrei mai farlo.

Ma non posso ignorare che la gente ha ripreso a bloccare le strade per protesta dopo la tregua imposta dal confinamento per la pandemia: i contagi (i nuovi sono in media 3 mila al giorno) passano quasi in secondo piano quando manca il lavoro, o non si può lavorare, o se lavori magari non ti pagano; di lire ce ne sono anche, ma valgono sempre meno (10 mila lire per un dollaro al mercato nero). Perfino l’elettricità non c’è per diverse ore al giorno per mancanza di gasolio nelle centrali o per impianti inadeguati. Le scuole sono chiuse e quando non lo sono, mancano i soldi per pagare rette e tasse. Gli ospedali di Beirut, quelli non colpiti dall’esplosione al porto del 4 agosto, sono in affanno per il Covid. Sono arrivate 28 mila dosi di vaccino, pagate dalla Banca mondiale, a fronte di circa 5 milioni di abitanti, senza contare i 2 milioni di profughi (siriani, palestinesi, iraqeni, ecc.). Perché al di là delle cifre ufficiali, qui tutti sanno che oltre ai profughi registrati ci sono anche quelli-che-non-si-sa.

E il governo non c’è, non si riesce a vararlo. Dalle dimissioni del terzo o quarto governo Hariri travolto dalla saura (la rivolta popolare che aveva trascinato per strada a protestare quasi metà dei libanesi) a fine ottobre 2019, è passato un anno e mezzo e due tentativi di incarico non riusciti, bloccati da complicati veti incrociati. A ottobre 2020 è stato reincaricato Saad Hariri, ma dopo 5 mesi la riserva sulla formazione del governo non è stata ancora sciolta, tra dissidi e divergenze.

Il debito pubblico era al 170% del Pil un anno fa. «Il debito è diventato più grande di quanto il Libano possa sostenere ed è impossibile per i libanesi pagare gli interessi», affermava uno dei leader  incaricati (Hassan Diab) poco prima di rassegnare le dimissioni a marzo 2020, quando il Covid stava solo arrivando. Eppure, con oltre metà della popolazione sotto la soglia di povertà, una diaspora che ha superato da tempo 3 volte il numero degli abitanti (con rimesse dall’estero ai residenti per miliardi di dollari l’anno), il governo non si riesce a fare.

In febbraio ci ha provato anche il patriarca maronita, il cardinale Béchara Boutros Raï: «Da mesi non si riesce nemmeno a insediare un nuovo governo, le speranze si sono esaurite, e rimanere nel silenzio vuol dire ormai diventare complici di scelte criminali. I governi di tutti i Paesi del mondo hanno simpatizzato con il popolo del Libano, tranne il suo»”. Il patriarca ha proposto, in sintesi, la convocazione di una Conferenza internazionale sponsorizzata dall’Onu per cercare soluzioni urgenti alla crisi istituzionale, sociale e politica del Libano, che tuteli anche la neutralità libanese rispetto ai conflitti e alle contrapposizioni di potere globali e regionali.

A livello politico la proposta ha suscitato commenti, con adesioni, contrarietà e distinguo, come sempre. Senza fare nomi di persone né di schieramenti, sono emblematici due commenti: il primo è di un ex ministro, che ha detto fra l’altro: «Il processo auspicato dal Patriarca per la convocazione di una Conferenza internazionale può realizzarsi solo con la pazienza dei tempi lunghi…». E il secondo è del leader di un’altra componente importante della società libanese, che ha rimarcato che internazionalizzare la crisi del Libano, a suo avviso, equivale a una dichiarazione di guerra, perché si presta a favorire ingerenze esterne, col rischio di riaccendere le dinamiche conflittuali che in passato avevano scatenato la guerra civile (1975-1990).

Per carità, c’è del vero in entrambe queste prese di posizione, come in altre, ma, secondo me – che non conto nulla, beninteso –, i tempi lunghi non ci sono ormai più e i rischi di conflitti e ingerenze esterne sono già realtà, e non solo rischi. E da parecchio. Tante persone, in Libano, non hanno più la forza di credere che se ne uscirà. Ma il coraggio della speranza rimane forte in molti. Coraggio e speranza che vanno ben oltre i confini confessionali.

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