Lettere e silenzio dopo il caos
Voci e domande di un movimento che si interroga dopo gli incidenti della manifestazione del 15 ottobre
«Vi è stato offerto di nuovo un palcoscenico: tre ore di caroselli anni Settanta delle camionette in diretta tv». Così un brano di una lettera, che sta girando molto sulla rete, che comincia con «potrei essere vostra madre o sorella» ed è rivolta ai violenti che si sono fatti scudo delle centinaia di migliaia di manifestanti del 15 ottobre. Per numero di partecipanti si è trattato del più grande evento avvenuto in Europa nella giornata scelta per dare il segnale di un risveglio di gente che non accetta i diktat della grande finanza.
L’epilogo temuto, che tutto finisse in questioni di sicurezza e ordine pubblico, si è purtroppo avverato con la domanda che molti si sono fatti: perché è avvenuto solo in Italia? L’autrice della missiva è Marina Petrillo, una giornalista che sta seguendo le rivolte arabe rimanendone cambiata profondamente tanto da restituirle la passione civile e ad interrogarsi seriamente sul «modo in cui facciamo politica». Quei fatti «mi hanno strappato dal meccanismo di delega vuota degli ultimi quindici anni». La pochezza dello spettacolo di piazza san Giovanni si palesa davanti alla prova di resistenza passiva offerta, invece, in quei Paesi: «Per chi ha visto i soldati gettare nel Nilo cadaveri di cristiani disarmati, voi siete solo imitatori, attori, pedine. Non avete rispetto per i vostri diritti, e ricoprite un ruolo ridicolo nella stessa recita che tanto detestate. Senza quella folla immensa in cui vi siete nascosti – lo sapete benissimo – non siete niente, nessuno vi guarda, nessuno si cura di voi, non contate un accidenti».
Eppure, altri osservatori si chiedono: davanti alla giovanissima età di alcuni autori degli scontri, non si tratta forse di un segnale da cogliere? E cioè che l’azione militare di minoranze organizzate potrebbe offrire, nella concitazione di uno scontro, un esempio da imitare per una generazione apparentemente rassegnata e che, invece, sente, appunto, di «non contare»? Impressione che sembra confermata dai numeri ballerini sui cosiddetti black bloc, dai probabili 500 ai tremila citati dal ministro dell’interno (che sembra in contraddizione con il numero esiguo – dodici – degli arresti eseguiti). Anche Valentino Parlato sul quotidiano Il Manifesto ha invitato a considerare istruttivi questi incidenti, come il segnale di un disagio reale e di un sistema che non regge più, attirandosi un fiume di proteste dei collaboratori e lettori.
Come Gianni Rinaldini, della minoranza Cgil e promotore, con Luca Casarini, della rete “uniti contro la crisi”, che ritiene inaccettabile chiamare in causa il disagio sociale di fronte all’evidente strategia di far fallire il percorso dei vari segmenti di movimenti riuniti nel coordinamento del 15 ottobre e che, si può notare, ancora non ha convocato una conferenza stampa comune.
Un silenzio emblematico che sembra espressione della necessità di fermarsi per comprendere meglio la situazione, al contrario del diluvio di dichiarazioni da parte delle forze politiche che, giocoforza, restano all’interno di quell’orizzonte nazionale in cui tutto ciò che accade si deve leggere nell’ottica di ricomposizioni elettorali. Prospettiva non estranea anche a chi, facendo parte dei movimenti di protesta, ha comunque visto nell’esito traumatico della manifestazione del 15 ottobre il risultato positivo di non permettere una certa appropriazione di questo movimento da parte del progetto che si richiama a Nichi Vendola. Malesseri e polemiche di corto respiro che, non aiutano quella rigenerazione della politica dal basso considerata, da molti, necessaria per poter rispondere alle emergenze di una crisi economica e sociale che continua, indifferente, a muoversi su altri piani, come gli occupanti davanti Wall Street, a New York, sembrano aver compreso.