L’estate sprecata per la lotta al virus

Gli ospedali allo stremo per il Covid sono la conseguenza di scelte sbagliate nelle settimane scorse. L’opinione di un medico
Foto Claudio Furlan - LaPresse

Il duro lavoro che il sistema sanitario e gli ospedali stanno facendo per offrire una risposta efficace alla seconda, minacciosa fase dell’epidemia, impone una riflessione generale e seria sul modo in cui siamo arrivati a questo punto. Una riflessione che, va da sé, non appare lusinghiera per nessuno: quella appena trascorsa rischia di passare alla storia come l’estate sprecata. Superata la prima fase dell’emergenza, appena usciti dal lockdown, abbiamo avuto a disposizione per molte settimane una grande finestra di opportunità; per diverse ragioni, questo tempo non lo abbiamo sfruttato come meritava.

Lo scopo delle considerazioni che seguono non è quello di recriminare o polemizzare, attività in cui si fa anche troppo e che serve a ben poco. Credo però che trarre lezioni da questi ultimi mesi, per migliorare la strategia di gestione dell’emergenza in futuro, sia essenziale per il nostro benessere e (perché no) per la sopravvivenza di parecchi di noi.

Partiamo da giugno: la curva scendeva, gli ospedali si svuotavano, l’Italia era citata fra la sorpresa generale a modello di un’ottima gestione di sanità pubblica. Tutto era andato bene, dunque, come c’eravamo ripromessi, dopo tanti sacrifici. Qualcosa deve essere invece andato storto, da noi come in altri Paesi (forse anche meno che in altri Paesi, questo va detto: ma i numeri si muovono molto in fretta e, in questa gara alla gestione virtuosa, passare dalla testa alla coda è un attimo).

Anzitutto, nel periodo dopo il primo picco, era semplice capire che alcune aree del Paese, fino a quel momento preservate dalla diffusione del virus, andavano protette dalla diffusione di micro-focolai, che avrebbero serpeggiato come braci sotto le stoppie per tutta l’estate, pronte ad esplodere in autunno: ma è stato scelto di correre questo rischio per consentire al turismo di ripartire; ciò è comprensibile, visto il costo sociale ed economico delle chiusure generalizzate.

Ma abbiamo permesso alle persone di comportarsi in modo irresponsabile. Anche quando i contagi secondari, generati dall’ondata di spensierata follia estiva, si sono allargati come tante piccole macchie d’olio, nessuno voleva sentir parlare di numeri in risalita, di comportamenti di prevenzione e di igiene personale (grazie ai quali è sempre possibile proteggersi dal contagio, pur preservando la vita di relazione). In troppi hanno preferito liberarsi da ogni impedimento e godersi l’estate senza pensieri, anche a costo di mettere in pericolo i propri cari e le proprie comunità. Fin qui, i singoli.

Ma anche come società civile, tutti abbiamo avuto l’opportunità di comprendere il tremendo meccanismo della crescita esponenziale dei casi, che si trascina dietro nel baratro quella dei ricoveri: ma abbiamo ascoltato le sciocchezze sulla morte clinica del virus, bollando ogni appello alla cautela come “terrorismo mediatico”.

Ci siamo detti che le nostre priorità erano la scuola e le attività produttive: chi non è d’accordo su questo punto? Tutti abbiamo attività, interessi, figli e parenti che necessitano di socializzazione, sicurezza e vita di relazione. Dovevamo lottare per svolgere tutto questo in sicurezza, attuare investimenti, sfruttare il tempo per preparare spazi e percorsi dove quello che veramente conta si poteva svolgere senza rischiare niente. Ma abbiamo lottato di più per riaprire le discoteche, sale gioco e far ripartire il campionato.

E le scuole, che pure hanno fatto un lavoro egregio e sono forse l’istituzione che ha saputo adattarsi meglio delle altre, sono rimaste più o meno nelle stesse condizioni di come erano prima dell’estate. Tanto per sottolineare che nella scala dei valori non è cambiato niente, ad una settimana dalla faticosa riapertura le abbiamo di nuovo usate per svolgere le operazioni di voto elettorale. Una scelta evitabile, che molti (compreso chi scrive) hanno vissuto come un segno di superficialità e passivo disinteresse.

Abbiamo avuto la possibilità di accedere a risorse finanziarie straordinarie per potenziare in maniera stabile e strutturata i servizi territoriali: questi potevano, sulla spinta di quanto è accaduto, essere profondamente riorganizzati. Ma in molte aree del Paese i provvedimenti che hanno consentito una buona gestione della prima fase non hanno trovato seguito in una vera riorganizzazione e le risorse messe in campo per l’emergenza sono state liquidate al termine dei contratti temporanei.

Sapevamo che sarebbe stato necessario, in caso di recrudescenza epidemica, snellire le procedure di tracing, utilizzando i test rapidi per lo screening (ma le linee guida che prendono in considerazione questa ipotesi di lavoro sono uscite il 16 ottobre) e semplificando le procedure per la riammissione in società (qui invece qualcosa si è mosso, però a metà settembre).

Ciò nonostante il settore sanitario sta facendo un lavoro eccezionale: gli ospedali, che mantengono attivi tutti i servizi di prevenzione, diagnosi e cura (tentando anche di recuperare il terreno perduto) hanno aperto un numero impressionante di letti intensivi, mentre i servizi di presa in carico dei pazienti sul territorio sono molto, molto più organizzati di prima.

Eppure, nulla può essere abbastanza se ogni settimana i casi raddoppiano, come avviene in mancanza di rigorose ed efficienti misure di contenimento dei focolai. La reazione, con gli strumenti a disposizione, è troppo lenta: con i tempi attuali rincorrere i casi di un contatto rischia di assomigliare ad acchiappare uno sciame di vespe con un retino per farfalle.

Penso che il problema più grosso ce l’abbiamo con i numeri. In alcuni settori non si riesce a capire (nemmeno ora, nemmeno di fronte all’evidenza della più banale matematica) che ogni 1.000 nuovi casi abbiamo 60 nuovi ricoveri e 5 nuovi malati in terapia intensiva. È di pochi giorni fa la dichiarazione mediatica di un collega che, riferendo percentuali simili a queste, diceva: “basta con la paura”. Ebbene, pensare che ogni giorno 20.000 persone si ammalano e che il 5% di esse andranno a ricovero, a me fa venire la pelle d’oca. Perché vuol dire che ogni giorno, considerando la media di aumento di ricoverati nelle ultime 2 settimane, in Italia serve aprire un nuovo ospedale grande con 600 posti letto. Oggi ne servono più di 900.

Letti che devono essere affidati a medici e infermieri, ammesso che se ne trovino disponibili, e sottratti ad altre malattie e ad altre emergenze.

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