Leggere Capitini mentre cadono le bombe

Le radici della non violenza nel pensiero e nella vita di Aldo Capitini che, nel 1961, iniziò la prima marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli
aldo capitini

«Dal basso». Ricorre spesso in Capitini (1899-1968) quest’espressione, ascoltata di recente, per indicare non la generica protesta contro la “casta”, ma l’esigenza profonda di porre un limite al potere, perché sia generato da tutti includendo anche i più deboli e i “senza voce”. Difficile, utopica e da realizzare attraverso una rivolta non violenta, capace di «persuadere» e non di eliminare l’altro. Secondo Fabrizio Truini (autore dell’intenso libro Aldo Capitini. Le radici della nonviolenza, recentemente riedito dalla casa editrice Il Margine) esiste una concordanza tra il pensiero di Carl Schmitt, teorico del conflitto amico/nemico come radice della politica, e quello di Aldo Capitini, il filosofo della logica dell’amore come esistenza donata agli altri: la convinzione che l’idea politica deriva dal modo di concepire Dio.

 

L’anomalia, la solitudine e la sotterranea persistente influenza sulle coscienze del professore perugino si ritrova tutta nella sua pretesa di offrire una visione religiosa esigente, capace di espressioni mistiche e di intima partecipazione («l’atto di amore all’altro come sola possibile prova dell’esistenza di Dio»), seppure non da cristiano senza Chiesa (come molti laici si definivano nella sua epoca), ma esplicitamente “post cristiano” allo stesso modo in cui si definiva “postmarxista”. Approccio di un uomo nato ancora nell’Ottocento, intriso di teismo e di suggestioni mazziniane, anche se la sua vicenda ha un dichiarato tratto francescano che lo conduce al «sicuro conforto» di un Cristo spogliato dalle vesti istituzionali del “monarca” e quindi presente «nel volto di ogni essere incontrato».

 

Una posizione che non poteva non suscitare preoccupazione nella Chiesa istituzionale, anche perché la svolta decisiva della sua vita coincide con la conciliazione tra Stato e Chiesa del 1929, considerata l’occasione perduta per una grande istituzione «che aveva educato gli italiani per secoli» e che «avrebbe potuto far cadere il fascismo in una settimana dispiegando una ferma non collaborazione». Incomprensioni reciproche che spiegano lo scetticismo di Capitini perfino nei confronti del Concilio Vaticano II e il sospetto di alcuni cattolici anche verso simboli come la bandiera arcobaleno, cucita per la prima marcia della pace del 1961, per un suo significato esoterico diverso dall’evidente riferimento biblico.

 

Ma il consenso di movimenti e partiti politici di tradizione anticlericale era spesso strumentale e comunque ironico, tanto da rimuovere il cuore del suo messaggio attuale che contesta, nel Paese di Machiavelli, il dogma prevalente sul fine che giustifica ogni mezzo. Per Capitini è proprio questa scissione che va abbattuta, assieme alla scorciatoia paralizzante del male minore, con il ricorso alla non violenza che non è una tecnica ma una decisa scelta “religiosa” che parte dal sentire il mondo come «estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un’apertura infinita dell’uno verso l’altro». Un «capovolgimento delle stesse strutture del pensiero e dell’agire», nota Truini,che palesa per Capitini l’insufficienza di una coscienza laica rinchiusa in una sola dimensione dell’esistenza, incapace cioè di dire «un tu in eterno». La non violenza non è la scelta degli indifferenti. È «una lotta continua» contro le situazioni circostanti, le leggi e abitudini e contro «il proprio animo e subcosciente che sono pieni di paura e violenza disperata».

 

Si può così comprendere come il contributo di Capitini, capace di proporre in via originale la sua scelta gandhiana a confronto con il pensiero occidentale, sia stato di seminare semi di una sana inquietudine senza per questo richiedere l’adesione a tutta la sua complessa visione teologica e filosofica. Da Benedetto Croce a Norberto Bobbio, più volte citati da Truini nel suo libro. Ma anche, possiamo ricordare, da Augusto del Noce, che cita Capitini come colui che «mi ha convertito all’antifascismo», fino al dibattito lacerante nell’area comunista alla ricerca di una chiave di lettura diversa da quella riduzionista della “violenza come levatrice della storia”. Senza dimenticare il confronto con Giovanni Gentile, il più autorevole e coerente teorico del fascismo , che come rettore della Normale di Pisa, pur stimandolo, non poté far altro che licenziarlo anche perché, con l’esempio del mite segretario dell’università, l’eresia del pensiero non violento si stava diffondendo, in pieno regime, proprio all’interno del più prestigioso ateneo italiano.

 

E così le varie e discontinue edizioni della marcia Perugia Assisi, mantenendo quella originaria fragilità che le espone a strumentalizzazioni e derisioni, accompagnano le speranze e le contraddizioni che attraversano il secolo del dopoguerra, tra attese di pace e consapevolezza di un disastro imminente con il proliferare di guerre cosiddette giuste e umanitarie. L’eloquenza del gesto si comprende perché si compie nella terra di Francesco rimandando inevitabilmente alla sua illogica diversità cristiana, oltre ogni immagine tranquillizzante, tanto che, con il tempo, proprio da alcuni cattolici, come ad esempio don Tonino Bello, sono arrivate testimonianze e proposte concrete per una radicale scelta nonviolenta come lettura adeguata dei segni dei tempi.

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