Le voci del silenzio

Davanti alle eleganti vetrine di via XX Settembre di Genova vivono Leo e Bruno. Silvano Gianti in Senza diritto di cittadinanza con brevi pennellate racconta la loro vita segnata dal fallimento e dalla solitudine ma che rivela sorprendenti squarci di dignità e umanità.
Senza diritto di cittadinanza_Silvano Gianti_CN_2016

Certo non è la romana via Condotti e nemmeno ha la pretesa di essere come le milanesi via della Spiga o via Mon­tenapoleone, ma via XX Settembre è una tra le più signorili di Genova. La strada è ampia, costeggiata da eleganti portici sotto i quali si affacciano alcuni prestigiosi negozi, boutique, librerie, pelletterie, bar e pasticcerie. Salotto buono della cit­tà, il suo percorso si sviluppa in meno di un chilometro da est a ovest. È anche il cammino preferito per le passeggiate sia dei suoi abitanti sia dei turisti, che la scelgono per lo shop­ping o, nel caso dei giovani, per lo struscio del tardo pome­riggio, poco prima dell’aperitivo. Allo stesso tempo, qui è del tutto naturale incontrare persone che chiedono «qual­che moneta per mangiare». Alcuni di questi sono quasi parte dell’inventario della città, sempre presenti, puntuali e ripeti­tivi, con il bello e con il cattivo tempo. Ti salutano, anche, e se ti fermi ti aggiornano sulle ultime novità della strada. Sono barboni “di classe”, a conoscerli si scoprono le loro storie, e la loro grande dignità.

 

Leo, ad esempio, ha un diploma di insegnante elementare e un matrimonio finito male, che ha mandato in crisi tutta la sua vita. Non ha figli e… nemmeno suoceri, dice. Così ora vive appoggiato alla vetrina di un ufficio abbandonato, chieden­do spiccioli per Marco, plurioperato al cuore, con necessità di cure continue. Marco sta sdraiato su un plaid e non è suo figlio, nemmeno un suo parente. A essere precisi non è nem­meno una persona. È un pastore tedesco, un po’ avanti negli anni. Leo lo tiene d’occhio, mentre modella con delle lattine posaceneri, moto, barche a vela, e lo sa fare molto bene. La sua giornata è ritmata sull’apertura e chiusura degli esercizi com­merciali. La sua casa è sotto una barca rovesciata sulla spiaggia davanti a una vecchia fabbrica, ottimo riparo anche nel perio­do freddo. Ha scoperto che i modellini che costruisce con le lattine piacciono molto ai bambini. Tante mamme li comprano e Leo quegli spiccioli li usa per curare Marco, compagno fede­le e inseparabile delle sue giornate e delle sue notti.

 

La vita di Bruno, invece, è iniziata in Piemonte, poi con la famiglia s’è spostato nel ponente ligure. I suoi genitori sono entrambi morti. Il papà – mi racconta – era un operaio della Fiat, comunista tutto d’un pezzo, la mamma casalinga. Bruno, dopo aver perso più di un lavoro, ha infine scelto l’accattonaggio. Ora, rannicchiato su un cartone, proprio non ci tiene a impietosire i passanti per far cassa e non ha nessun animale per compagno. A scaldare le sue giornate ci pensano mucchi di libri. Le monete che riceve le usa tutte per comprare libri e vino, le sue due passioni. Scrive anche una specie di diario, solo in parte leggibile, perlopiù incoe­rente e sconclusionato. Pagine e pagine di racconti dedicati a Bianca, Laura, Angela e a tante altre ragazze con cui ha fat­to l’amore. Loro, dice, gli hanno fatto da fidanzata, amante, amica. Angeli, le chiama, e dedica loro capitoli di una storia che ovviamente non sarà mai pubblicata. Seduto in una po­sizione innaturale, con una manica della felpa tagliata, quel­la del braccio che tiene il libro, sta tutto il giorno accanto alla porta del bar, completamente assorto nel suo mondo fantastico. Un giorno, mentre lo guardo, assente tra la fol­la indaffarata che gli scorre davanti, passano una mamma e un bambino. Il bambino, attratto dall’insegna dei gelati, si arresta di colpo e domanda un gelato. La mamma, però, non è d’accordo e con un gesto seccato lo strattona per il braccio per trascinarlo via. Il bambino inizia a piangere e urlare. Bruno, che è lì a pochi centimetri da lui, solleva la testa dalla pagina e i loro occhi s’incrociano, pietosi quel­li del bimbo, inteneriti quelli di Bruno.

 

Allora socchiude il libro, infilando tra le pagine l’indice della mano, e con l’al­tra fruga in una scatola di scarpe. «Tò, bimbo, comprati il gelato», dice, e gli porge gli unici due euro che ha raccolto dalla mattina. Il bimbo è stupito, la mamma impietrita, non le resta che far scegliere al figlio i gusti per il cono. La scena dura l’istante della sorpresa, il bambino ha un enorme sor­riso sul volto, la mamma è intenta a rovesciare una cascata di monete nella scatola di Bruno. Ma lui ha già ributtato la testa nel libro, contento di aver contribuito a soddisfare un desiderio. Giulio e Caterina, i suoi genitori, l’avevano tirato su forte e sano, ma il vino lo ha sopraffatto con il suo sapore morbido e titillante. Una volta adulto ha iniziato a frequen­tare le comunità per alcolisti, ma disintossicarsi è sempre un’operazione difficile. Ora, i genitori non ci sono più. Bru­no tuttavia ha mantenuto rapporti genuini con gli amici del babbo e della mamma e intanto tira a campare tra una cli­nica e l’altra. Quando finisce una terapia, spergiura che non berrà più, ma poi ci ripensa, si pente del giuramento fatto e ci ricasca ancora. I servizi sociali lo conoscono bene, anche per la sua gentilezza. Ogni volta che torna tra le mura della struttura ospedaliera, quasi si scusa e, per farsi perdonare, inizia a raccontare cosa ha letto e a far leggere a tutti quello che ha scritto.

 

Da Senza diritto di cittadinanza di Silvano Gianti, pp. 112; € 13,00

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