Le sfide del voto britannico

Dietro il voto secco dentro-fuori dall’Ue, la posta in gioco è molto alta: per i cittadini britannici che andranno al voto, per l’Unione europea nel suo complesso, e per gli altri Stati membri
Londra

Ci siamo. Giovedì i britannici si recheranno alle urne per rispondere, con un sì o con un no, a una domanda chiara: vuoi che la Gran Bretagna rimanga membro dell’Unione europea?

Una domanda semplice in apparenza, che nasconde molteplici sfide.

 

La prima sfida è interna alla Gran Bretagna. Il premier Cameron ha scommesso sul referendum, con l’intento di liberarsi dalla zavorra della parte euroscettica del suo partito, una fastidiosa minoranza interna. Sul sì all’Ue Cameron ha giocato tutto il suo peso politico e la sua credibilità, ottenendo concessioni dai partner europei (vedi Accordo tra i 28 sulle richieste britanniche) che sperava garantissero, se non proprio un’agevole vittoria del sì, una campagna referendaria un po’ meno tormentata di come è stata.

 

Se vincerà il Brexit, Cameron dovrà verosimilmente lasciare Downing Street. Chi prenderebbe il suo posto? L’ex sindaco di Londra Boris Johnson, che sperava nella vittoria del Brexit per profilarsi come nuovo leader dei conservatori, ma esce anche lui indebolito dalla campagna referendaria per alcune sparate sopra le righe? Oppure, in caso di vittoria del Brexit, il prossimo passo dell’elettorato britannico sarebbe dare una spallata ai partiti tradizionali a favore del populista UKIP dell’istrionico Nigel Farage?

 

A parte i contraccolpi economici dell’eventuale Brexit, ce ne sarebbe uno politico, di non poco conto. La stragrande maggioranza dei cittadini scozzesi sono a favore dell’Ue e, in caso di uscita del Regno Unito, è verosimile che la Scozia intraprenda un processo di secessione, allo scopo di ritornare membro dell’Ue.

 

La seconda serie di sfide riguarda l’Unione europea nel suo complesso. L’ingresso dei britannici nelle Comunità europee di allora era stato il sogno di Jean Monnet, ideatore dell’Europa unita alla fine degli anni ’40 del secolo scorso: avendo vissuto a lungo a Londra, apprezzava le doti degli inglesi, in particolare il pragmatismo.

 

Dall’adesione del Regno Unito nel 1973, rari sono stati i casi in cui questo Stato membro ha dato una spinta propulsiva al processo di integrazione europea. Spesso si è tirato indietro, chiedendo eccezioni e deroghe, non aderendo a nuove politiche comuni: è conosciuta la storia dello sconto britannico al finanziamento del bilancio comune, la non adesione a Schengen e all’Euro, le deroghe in materia sociale. Al punto che l’UK è visto oggi più come una spina nel fianco che un vero partner da molti osservatori a Bruxelles, che si augurano che vinca il Brexit e che ci si possa liberare una volta per tutte dei britannici: senza di loro, pensano, sarà più facile rilanciare il processo di integrazione affrontare le drammatiche sfide attuali, prima tra tutte l’accoglienza di migranti, che richiedono un grado di coesione che sarebbe impossibile raggiungere insieme ai britannici.

 

Certo che un’uscita della Gran Bretagna sarebbe uno shock fortissimo per tutta l’Ue. Ci sarebbe un contraccolpo economico non indifferente, per l’interpenetrazione delle economie a cavallo delle due sponde della Manica e per il peso della piazza finanziaria londinese. Ma lo shock sarebbe soprattutto geopolitico. Con le isole britanniche alla deriva, quale sarebbe ancora il peso dell’Ue sulla scena mondiale, di fronte a colossi come Usa, Cina, Russia, Brasile, ecc.? Certo, magari sarebbe più coesa, ma un insieme pur coeso che conta meno, che avvenire avrebbe? E il Regno Unito, una volta tagliati i ponti con l’Ue, non avrebbe la tendenza a voltare le spalle al contenente e rivolgersi decisamente verso gli Usa, più lontani geograficamente ma assai prossimi culturalmente?

 

Da ultimo, il voto britannico avrà un impatto sugli altri stati membri, non solo come insieme ma singolarmente. Già Francia e Germania, i buoni allievi dell’integrazione europea, hanno promesso ai britannici lacrime e sangue al momento di negoziare le condizioni dell’eventuale uscita dall’Ue. Sia per punire la tracotanza della perfida Albione, sia per dissuadere altri stati membri dal richiedere, e magari ottenere, deroghe e concessioni come ha fatto la Gran Bretagna, con il rischio di avere un’Ue a macchia di leopardo, con un mosaico di regole à la carte.

 

Guardano con attenzione al voto britannico anche altri Stati, che vivono con crescente insofferenza l’adesione alle regole della convivenza comune sotto la bandiera blu a stelle gialle: per esempio la Slovacchia e l’Ungheria, che a dicembre 2015 hanno impugnato, davanti alla Corte di giustizia Ue, le quote di ripartizione dei migranti tra gli stati membri, che il consiglio dei ministri Ue aveva deciso a settembre. Ai governi di tali paesi, e ad altri, non spiacerebbe che il Regno Unito restasse membro, e che continui ad essere un esempio trainante delle deroghe che si possono ottenere, magari per farsi belli davanti all’elettorato nazionale delle vittorie strappate in Europa. Anche se poi magari si rivelano vittorie di Pirro, se il prezzo è di rendere più fragile l’Ue e la sua voce, agli orecchi dei cittadini europei e del mondo, di smarrire la direzione del percorso comune.

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