Le sfide del primo maggio

La crisi ha evidenziato inaccettabili situazioni di diseguaglianza, sfruttamento e divisioni tra i lavoratori. L’esigenza di una vera democrazia economica per far ripartire un Paese ferito e sotto attacco speculativo
Marco Alpozzi/LaPresse

Il primo maggio è la festa dei lavoratori, non una generica festa del lavoro. Si è affermata negli ultimi anni dell’800 sotto la spinta di un movimento operaio capace di conquistare, nonostante durissime repressioni, l’esercizio di diritti elementari come la giusta retribuzione e il riconoscimento del tempo sottratto al lavoro.

Nel 2020 il permanere dello stato di pandemia da Covid 19 sposta sul web comizi e concerti, oltre le gite fuori porta, e quindi può essere l’occasione per affrontare tanti nodi irrisolti che la crisi può rendere ancor più difficili da sciogliere. Innanzitutto la frammentazione delle persone in tante forme di lavoro che non hanno una rappresentazione comune.

È stato minato alle fondamenta il senso del sindacato che vuol dire “insieme per la giustizia”. Basti pensare ai reparti ospedalieri investiti dalla tempesta del coronavirus dove si son trovati ad operare assieme il personale regolarmente assunto ea tanti precari, non solo tra medici e infermieri, ma soprattutto nei servizi generali, affidati al meccanismo instabile degli appalti temporanei e al ribasso. Operatori che hanno svolto, ad ogni modo, in modo impeccabile il proprio compito decisivo per limitare il contagio.

Il lavoro invisibile
A muoversi nelle nostre strade desertificate sono rimasti i furgoni dei corrieri e i fattorini del cibo in bicicletta (drivers) intenti a coprire l’ultimo tratto della consegna della merce a casa. Sono persone che, di solito, nella vita ordinaria restano “invisibili”.

C’è voluto, prima che chiudessero le sale, un film di Ken Loach ( “Sorry we missed you”) per far capire di avere a che fare con nuove forme di sfruttamento, catalogate come libero lavoro autonomo ma, nei fatti, dipendenti da un algoritmo programmato per indurre una condizione di vera e propria servitù.

A differenza della storia raccontata dal regista britannico, nella realtà, questi lavoratori non restano nella solitudine, sperimentata amaramente con le loro famiglie, ma cercano di organizzarsi, promuovono forme di sciopero inedito. Espressioni spontanee di rivendicazione che hanno bisogno di un sostegno collettivo per andare avanti.

Ogni filiera di produzione può essere bonificata da forme pervasive di sfruttamento solo se scatta l’alleanza tra tutti. È il caso esemplare del lavoro agricolo che rientra tra le attività essenziali, quelle cioè non sospese durante il periodo della quarantena da coronavirus. Un settore dove, secondo l’osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, 430 mila persone sono reclutate e sfruttate con il metodo del caporalato che porta a forme di lavoro paraschiavistico per 130 mila braccianti. Per cambiare un sistema disumano occorre una alleanza che parte dai campi, attraversa il sistema dei trasporti e dei grossisti per arrivare sul mercato sotto casa o della grande distribuzione e quindi al consumatore.

Unire i lavoratori
Ma per imporre un prezzo giusto, che tenga conto della componente del lavoro, il primo anello da collegare è quello, spesso assente, tra lavoratori agricoli e della distribuzione organizzata. Anche qui intervengono le divisioni dei dipendenti in varie forme contrattuali, l’appartenenza formale ad aziende con nomi e referenti diversi.

La frammentazione dei lavoratori ha indotto un senso profondo di solitudine e una incapacità di rappresentanza verso i datori di lavoro, sia reali che fittizi. A volte, tuttavia, esistono segnali in controtendenza come è accaduto con la legge contro il caporalato, la n.199 del 2016, che permette di colpire le forme di subordinazione fasulla, non solo in agricoltura. È stata applicata, ad esempio, per far valere l’esistenza reale di un rapporto diretto di lavoro con le Poste italiane e Bnl da parte di dipendenti che solo formalmente, con appalti illeciti, erano sul libro paga di un’altra società.

Da più parti si afferma che lo stato d’eccezione provocato dalla pandemia rappresenta l’occasione per capire gli errori fatti finora e quindi cambiare rotta. Ma gli effetti della crisi sono pesanti. I dati Inps parlano di 7,3 milioni di persone in cassa integrazione con una perdita media del 37% sulla retribuzione, indice della grave instabilità delle aziende che rischiano la chiusura se non si trova il modo di non cadere nella recessione.

E si tratta, esclusa l’area garantita del settore pubblico, dei rapporti di lavoro più stabili. Esiste, infatti, una vasta zona di lavoro informale, non contrattualizzato, che espone le persone direttamente alla mancanza di ogni risorsa per vivere. Un dato di fatto drammatico che ha convinto anche i più scettici a riconoscere la necessità di introdurre una forma di “reddito di emergenza” che è tra i provvedimenti previsti dal governo.

L’Italia deve spendere enormi capitali non solo per coprire le spese nel campo sanitario e del sostegno al reddito di persone e imprese, ma per operare investimenti mirati in settori capaci di produrre lavoro di qualità e benessere collettivo. Soldi che non possono gravare sul debito pubblico come prestiti da ripagare con interessi gravosi, destinati a provocare tagli pesanti in bilancio su scuola, sanità e spesa sociale.

Un nuovo patto per ripartire
Le fasi decisive della partita si decidono nella trattativa in corso con l’Ue sulla definizione del “Fondo per la ripartenza”, mentre segnali di attacchi speculativi sono già arrivati dall’agenzia privata di rating Fitc,h che ha giudicato negativamente i nostri conti pubblici peggiorati dalla crisi della quarantena. Una valutazione che, se confermata dalle altre agenzie di valutazione riconosciute dai mercati internazionali, getterebbe la nostra economia nel caos per mancanza di accesso al credito.

Eppure, come ha sottolineato il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, i nostri assetti fondamentali sono solidi. L’industria manifatturiera, che dovrebbe ripartire a pieno regime il 4 maggio, compete con la Francia per il secondo posto in Europa, dopo la Germania.

Il settore tedesco dell’auto non può ripartire senza la componentistica italiana. Grandi società come Fca e Ferrari hanno raggiunto un accordo avanzato con i sindacati per il rispetto dei protocolli di sicurezza dei lavoratori. Ma esiste tutto il mondo della piccola e media impresa dove, come è avvenuto anche nelle aree del lombardo-veneto più colpite dal virus, la carenza o assenza del sindacato ha permesso di imporre le ragioni della produzione su quella della sicurezza dei lavoratori.

Con queste tensioni e divisioni sarà difficile ripartire davvero. Per questo motivo quattro ex segretari generali di Cgil, Cisl e Uil (Pezzotta, Benvenuto, Cofferati e Epifani) hanno lanciato un forte appello a favore di “un accordo nazionale per superare la crisi”, necessario per rafforzare «le giuste richieste dell’Italia all’Unione Europea nonché la gestione omogenea e solidale dei fondi previsti dalla UE».

Non si tratta, quindi, dell’accettazione di uno stato di sottomissione dei lavoratori come avvenuto durante i conflitti mondiali, considerando il ricorrente riferimento allo “stato di guerra”, ma di un patto che, oltre a coprire l’urgenza, preveda anche «gli indirizzi per creare nuovo lavoro (specie giovanile) e nuove imprese che rispondano ai bisogni che si sono determinati o acuiti con questa crisi».

E il programma sarebbe già pronto seguendo le strategie definite dall’agenda Onu per il 2030. Un progetto che conduce non solo a correggere la rotta di uno sviluppo sbagliato, ma a vere e proprie forme di riconversione produttiva. Il momento estremo di crisi pone, dunque, il mondo del lavoro al punto di partenza della Costituzione, alla realizzazione di quella democrazia economica senza la quale quella parlamentare rischia di restare incompiuta.

 

 

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