Le settimane sociali e la commessa incatenata

Mentre a Cagliari si discute dell’impegno dei cattolici italiani per un lavoro degno e solidale, vicino Roma esplode la protesta di alcune commesse di un centro commerciale per cercare di conciliare la propria occupazione con le esigenze familiari.

Nei giorni in cui il vescovo di Taranto, Filippo Santoro, presidente della comitato organizzatore, presentava, nella sala stampa vaticana, il senso e il programma delle settimane sociali dei cattolici italiani, la città pugliese, percorsa da un vento impetuoso, veniva inondata dalle polveri dell’immenso parco minerali dell’Ilva. L’intera area dovrebbe essere messa in sicurezza, ma, secondo gli ultimi piani di bonifica, ciò avverrà solo entro il 2023.

Una vicenda complicata ed emblematica del lavoro messo impropriamente in conflitto con le ragioni della salute. Gli stessi operai e impiegati dello stabilimento siderurgico sono minacciati dall’annuncio di 4 mila esuberi da parte del duo Arcelor Mittal – Marcegaglia, nuovi proprietari della società, dopo la fuoriuscita del gruppo Riva, al centro del processo “ambiente svenduto” che ha messo in evidenza responsabilità e omissioni a diversi livelli politici e amministrativi.

Ciò che si rivela interessante nell’appuntamento nazionale sul lavoro, che si svolge a Cagliari dal 26 al 29 ottobre, è l’impegno ad andare oltre il tempo limitato che avranno i convegnisti, circa un migliaio, per partecipare ai diversi appuntamenti istituzionali e ai tavoli di lavoro nel segno della denuncia e della proposta. È il metodo da tempo proposto e praticato, ad esempio, dalla storica Gioc, la “Gioventù operaia cristiana” che invita a “vedere, capire e agire”.

Il vescovo di Taranto, con accenti di particolare novità, ha parlato della necessità di partire dai volti, dalle storie delle persone, citando due donne italiane, Paola Clemente e Giuseppina Spagnoletti, vittime dello sfruttamento sul lavoro proprio in Puglia. Nel caso della Clemente, bracciante agricola madre di tre figli, il ricorso al caporalato è emerso dalle indagini che coinvolgono imprenditori e società di lavoro interinale.

“Vedere” e “partire dai volti” è un buon punto di partenza perché rifiuta ogni rimozione e omissione. “Capire e agire” è decisamente più complicato, perché le scuole di pensiero, e le conseguenti azioni, sono molto diverse anche tra coloro che si ispirano alla dottrina sociale cattolica.

Nel caso specifico, come abbiamo cercato di analizzare su Città Nuova, non ci può fermare alla fase finale del lavoro disumano sfruttato dai caporali, ma bisogna risalire all’intera filiera produttiva determinata da chi, come la grande distribuzione organizzata, impone i prezzi dei beni agricoli.

Restando su questa prospettiva di “denuncia e proposta”, c’è un caso emblematico che non può non interessare la settimana sociale dei cattolici italiani. Arriva dal centro commerciale di Castel Romano. Una cittadella commerciale situata alle porte di Roma e programmata per attirare più visitatori della Basilica di san Pietro.

In questo luogo del consumo di massa, le commesse di una nota catena di negozi di moda hanno chiesto di poter avere almeno una domenica libera al mese per stare assieme alla propria famiglia. Alla protesta delle lavoratrici, che hanno deciso di iscriversi ad un sindacato combattivo, la proprietà ha risposto con il trasferimento ad altro outlet, molto più lontano dall’abitazione di quelle donne che chiedono solo di poter distribuire il lavoro per stare con i figli nel giorno di riposo della famiglia. Una di loro, per protesta, si è incatenata, a fine turno, con il sostegno dei familiari e la sorpresa dei passanti che avranno capito poco di quel gesto.

Che fare? In un tempo in cui si cercano le “buone notizie” per dare lenimento al flusso continuo di news tragiche, la vera “buona nuova” si può leggere nell’insorgere della coscienza della commessa, capace di compiere un segno pubblico di ribellione. Ma, per non farne una manifestazione di impotenza e di solitudine, occorre una risposta collettiva. Come? Il dibattito è aperto per chi vuole agire seriamente.  Esaminiamo alcune strade.

Votare con il portafoglio, premiando le imprese che osservano pratiche diverse da quelle repressive, ha un effetto di lungo termine, quando va bene.

Fare una campagna di boicottaggio del marchio sembra inattuale e inefficace per mancanza di massa critica, a meno che le associazioni familiari non decidano di “immischiarsi” anche nelle attività dei centri commerciali.

Il sindacato proverà a limitare i danni, evitando un licenziamento che potrà comunque indursi in tanti modi. Ben venga ogni espressione di solidarietà, ma questo fatto deve obbligare a ragionare sul potere eccessivo concesso alle aziende e all’affievolimento delle difese erette in decenni di impegno per “il lavoro degno, creativo, solidale e partecipativo”: Il titolo, questo, definito dal comitato organizzatore delle settimane sociali riprendendo un’affermazione del discorso rivolto da papa Francesco ai movimenti popolari nel nome della «fraternità che muove alla lotta per la giustizia sociale».

Cosa significa in concreto senza ridurre il tutto «a discussioni teoretiche» come afferma il vescovo Santoro? Vedere capire agire da e dopo Cagliari sarà una bella sfida da cogliere.

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