Le morti ingiuste di Las Vegas

Ancora una tragedia ferisce gli Usa per il possesso indiscriminato di armi. La solidarietà è la carta vincente del Paese. Ma non basta: ora servono leggi che proteggono sul serio

L’ultima conferenza stampa del capo della polizia di Las Vegas (le 4 del mattino per l’Italia) ha riassunto in maniera secca la tragedia che da 24 ore ha ferito a morte la sua città: 59 morti, 527 feriti. Il bollettino delle vittime della sparatoria più sanguinosa nella storia degli Usa, ha colpito ignari spettatori che si trovavano in un giardino a godersi la musica country suonata al Route 91 Harvest, il festival più popolare di questo genere. Erano circa 40 mila gli appassionati di questa tre giorni, 30 mila erano quelli che assistevano alla manifestazione domenica notte. A questi numeri se ne aggiungono altri, agghiaccianti per la loro entità e per la semplicità con cui Stephen Paddock, autore di quest’eccidio ne è entrato in possesso. Sono 23 i fucili con giro di munizioni automatico piazzati nella stanza al 32° piano dell’hotel Mandalay bay, che la polizia ha rinvenuto facendo irruzione in un simile fortino di guerra contemporaneo. Altrettanti 19 sono stati quelli ritrovati nella sua casa: tutti acquistati con regolare licenza da negozi vicini alla sua città di origine o nei pressi della capitale del Nevada.

Donald Trump

Tacciono i proprietari dei negozi che ne hanno autorizzato la vendita: nei loro rapporti il Paddock cliente non presentava alcuna irregolarità o impedimento all’acquisto. Quella di Las Vegas si configura come l’ennesima strage su cui si scateneranno polemiche sulla legge per il controllo delle armi senza passare di fatto a soluzioni realmente efficaci. E così, mentre il presidente Trump assicura la sua vicinanza alle vittime e alle famiglie, dichiarando che questo «momento di buio» può essere sconfitto da una nazione unita e dalle luci della solidarietà; il suo portavoce dichiara che il secondo emendamento della Costituzione che autorizza il possesso di armi non viene messo in discussione «e soprattutto non in questo momento quando il Paese deve restare unito». Ascoltando le testimonianze dei sopravvissuti e dei feriti e guardando alla scia di sangue sparsa nei più vari angoli della platea del concerto, ci si domanda se davvero non sia possibile una seria riforma sul tema.

Il chitarrista Caleb Keeter, leader del gruppo Josh Abbott Band, noto per le sue posizioni a favore del possesso di armi, dopo l’eccidio ha postato un lungo messaggio su Twitter in cui dichiarava di «essersi sbagliato e che le armi detenute legalmente nel suo bus (dove si preparava all’esibizione) si erano rivelate inutili perché se le avessero usate la polizia li avrebbe scambiati come complici del massacro». Il musicista ha continuato dicendo di aver temuto di non rivedere i genitori e la sua compagna perché tutto era sfuggito di mano e che «abbiamo bisogno di un controllo dell’uso delle armi adesso. Il mio più grande rammarico è che fossi così ostinato a sostenere il contrario fino a questo momento e al rischio di essere tra le vittime o i feriti». La dichiarazione del chitarrista è rara nel mondo musicale poiché, soprattutto negli Stati fautori del possesso di armi, simili affermazioni equivalgono a finire nella lista nera delle radio che bloccano di fatto la messa in onda dei brani. Ma al leader dei Josh Abbott, sembra importare ben poco.

L’altro volto di questa tragedia è la solidarietà che ha mobilitato l’intero Nevada, la California e l’Arizona. David viene da una città vicino Los Angeles e ha guidato tre ore per raggiungere Las Vegas e mettersi in fila ordinatamente, per altrettante ore, per donare il suo sangue. E non è il solo: le code davanti alla banca del sangue spiegano lo stato di emergenza e fotografano una generosità inattesa. Dai vari angoli della città, ma anche da California e Arizona si vedono arrivare macchine di singoli e di gruppi con bottiglie d’acqua, caffè e merendine, che hanno trasformato la sede dell’Esercito della salvezza e della Croce rossa in grandi magazzini di provviste per i soccorritori e per chi, ancora sotto choc, attende di avere notizie degli amici feriti e di sapere se invece uno dei propri cari irrintracciabili giace in questo momento nell’obitorio. Ci sono infermiere, insegnanti, un pubblico ufficiale di polizia, una cheerleader, una nonna e la nipote, tra le vittime della sparatoria che ha trasformato un tempio della musica in una tomba. Commoventi sono le testimonianze di chi nella corsa per salvarsi dalla gragnuola di colpi esplosi da Paddock è riuscito a salvarsi e a salvare magari uno sconosciuto. Due ragazze hanno trovato una bambina sola e senza curarsi di rallentare la loro corsa, l’hanno presa tra le braccia e messa in salvo. Un papà, compresa la gravità della tragedia, si è sdraiato sul corpo dei suoi due bambini per proteggerli, mentre uno dei fotografi ufficiali della manifestazione ha cercato di salvare una ragazza colpita alla testa. Lo choc tra tutti è palpabile e in molti si rifiutano di parlare: sono vivi e questo conta.

Las Vegas Shooting

Nella città si sono susseguite veglie di preghiera, momenti di riflessione a cui hanno preso parte rappresentanti di tutte le Chiese e confessioni e numerosi esponenti politici di entrambi gli schieramenti. La polizia ha escluso, al momento, la pista terroristica e gli stessi familiari di Paddock sono sotto choc per il suo gesto inspiegabile e chiedono perdono alle famiglie che hanno perso un proprio caro. Las Vegas ha visto mobilitarsi con grande dedizione tutti i corpi di pubblica sicurezza e la protezione civile e tanti di loro nel cercare di individuare il killer hanno rischiato la vita, non scappando ma restando in piedi per capire la provenienza degli spari. La parola che risuona sulle loro labbra è «mai più», che questo «non si ripeta e non accada ad altri». Spetta ora ai legislatori raccogliere questa loro supplica, che non è la sola perché tutte le città vittime di omicidi di massa si sono fatte presenti al sindaco con messaggi di solidarietà e vicinanza, anche loro augurandosi un «mai più».

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