Le immigrazioni degli smartphone

Dopo le ondate irachena e siriana, ecco che comincia (anzi continua) il terzo grande esodo di rifugiati da un Paese musulmano in guerra (o quasi). Cosa pensarne?
smartphone

C’è un afflusso migratorio sostanzialmente regolare, quello che arriva dall’Africa e dal subcontinente indiano. È una chiara “immigrazione economica”, cioè dettata dal desiderio di tanta gente di migliorare la propria posizione di benessere, di felicità, almeno dal punto di vista economico. Sì, alcuni Paesi africani conoscono o hanno conosciuto anche flussi migratori per questioni politiche – pensiamo all’Eritrea o al Gambia −, ma non sono flussi delle stesse dimensioni rispetto all’Iraq, alla Siria e, ora, all’Afghanistan. Difficile, comunque, distinguere con sicura evidenza i diversi tipi di immigrazione, perché le dimensioni dei flussi migratori sono sostanzialmente tali che le diverse motivazioni si mescolano senza essere più distinguibili. Ancor più difficile, ad esempio, è separare le motivazioni dell’immigrazione quando si prendono in conto i cambiamenti climatici. C’è però un elemento che unisce tutte le diverse migrazioni: il telefono portatile, in particolare quello smartphone che è l’invenzione più invasiva delle nostre vite, anche della nostra psiche, degli ultimi decenni.

Questo strumento, che usa l’immagine come suo primo servizio, influenza in modo estremamente pronunciato l’immaginario personale e collettivo dei candidati alla migrazione, che siano politiche, economiche o climatiche. Non credo in ogni caso che si sia coscienti abbastanza nella nostra Europa dell’importanza di tale invenzione tecnologica nelle migrazioni. Intendo soprattutto quei telefonini che non solo svolgono funzioni telefoniche, alla Meucci per intenderci, ma quelli che sono piccoli computer che trattano immagini e suoni di ogni genere. Sui loro piccoli schermi si può “ingrandire il mondo” (cioè si può arrivare con lo spirito ovunque) o al contrario lo si può “rimpicciolire” (cioè si riducono le distanze virtuali e immaginarie). Un giovane che, nel profondo dell’Africa, riesce ad aprire una tale finestra sul mondo economicamente più ricco non può non maturare se non altro un dubbio: perché loro sì e io no? Perché una giovane afghana che guarda sul piccolo schermo dello smartphone di un amico minigonne e donne manager non deve desiderare quei Paesi di libertà esteriori? Perché un giovane srilankese, che emerge da un villaggio devastato dalle guerre tribali, vedendo la spensieratezza delle strade di New York o Berlino o Roma, può non desiderare di raggiungere una città dove si possa risvegliarsi la mattina senza patemi d’animo e con la prospettiva di una giornata lavorativa onesta e non il deserto umano della disoccupazione cronica?

L’unico modo per rallentare i flussi migratori sarebbe allora quello di proibire la vendita di smartphone e delle relative installazioni telefoniche nei Paesi di partenza delle emigrazioni? Certamente sarebbe un metodo plausibile per il pensiero “capitalista”. Ma è impossibile, anche perché ormai le tecnologie digitali non sono appannaggio solo dei Paesi occidentali, ma sono acquistabili in Cina, Corea, India che hanno altri riferimenti ideologici. La “molla” delle migrazioni contenuta negli smartphone è, nonostante le enormi storture del mercato transnazionale del digitale, uno dei più efficaci strumenti di riequilibrio della distribuzione della ricchezza esistente al mondo. Lo vediamo tutti: le rimesse degli immigrati sono molto più efficaci per la crescita dei popoli rispetto ai contributi umanitari a pioggia, anche perché molto meno facilmente diventano preda delle corruzioni locali.

Appurato che gli smartphone hanno quindi la capacità di sollecitare l’immigrazione, viene da chiedersi se un’analoga capacità sia ascrivibile agli smartphone a proposito della democrazia. Credo che la risposta sia ben diversa. Anche a proposito dell’Afghanistan

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