Lavoro servile, per spezzare le catene non basta il consumo critico

Libero mercato e lavoro da liberare. Dall’omicidio di Adil  Belakhdim ai lavoratori morti in Puglia stroncati da fatica e caldo torrido. Per offrire una lettura complessiva del sistema di sfruttamento del lavoro annidato dentro il sistema economico produttivo del nostro Paese, Città Nuova ha pubblicato un testo a più mani ma unitario nel suo svolgimento, intitolato “Spezzare le catene, un lavoro libero tra centri commerciali e caporalato”” a partire dal fatto che per cambiare le regole del sistema economico non ci si può fermare solo al pur positivo esercizio del consumo critico, o come si dice, al “voto con il portafoglio”. La questione centrale della Grande distribuzione organizzata  
Lavoro (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Lavoro libero e degno. I braccianti della Piana di Gioia Tauro hanno scioperato recandosi a manifestare a Reggio Calabria, lunedì 28 giugno, mentre a Roma la cabina di regia del governo Draghi ha confermato, come dice il ministro della Pubblica Amministrazione, l’economista Renato Brunetta, «la nostra volontà di tornare al mercato» e cioè di procedere con lo sblocco dei licenziamenti a partire dal primo luglio. La decisione riguarda il settore dell’edilizia e quello manifatturiero, con l’eccezione del tessile, moda e calzature.

Cosa vuol dire  tornare al mercato? È ormai evidente la presenza in Italia di consolidate aree di sfruttamento del lavoro. Secondo il rapporto annuale dell’osservatorio Placido Rizzotto della Cgil solo nel settore agricolo si tratta di oltre 400 mila persone esposte a pratiche disumane per far arrivare la frutta e gli ortaggi che arrivano sulle nostre tavole.

L’ultima notizia che ha destato qualche spazio nell’informazione è quella relativa a Camara Fantamadi, bracciante agricolo di 27 anni proveniente dal Mali, stroncato dal caldo mentre tornava dal lavoro nelle campagne del brindisino. Colpisce, anche ancora meno nota, la morte di Antonio Valente, 35 anni, colpito dagli effetti del caldo torrido mentre  distribuiva volantini pubblicitari a Galatina, provincia di Lecce.  E poi, sempre in Puglia, Carlo Staiani, 38 anni, in provincia di Brindisi, si è sentito male mentre era alla guida di una autocisterna e ha perso anch’egli la vita.

Le autorità comunali e regionali cercando di rimediare con ordinanze che vietano ogni tipo di attività in certe condizioni nelle ore più calde, ma, oltre al fatto che i controlli sono difficili, il vero problema resta la precarietà e pericolosità del lavoro in determinate filiere che sfuggono ad ogni controllo. Non solo nel settore agricolo. Come ha detto Jean Renè Bilongo, della Flai Cgil, intervenendo a Reggio Calabria l’omicidio di Adil Belakhdim sindacalista della logistica appartenente al Si.Cobas «è davvero sintomatica del rischio di frattura che il mondo del lavoro sta affrontando. Adil è stato ucciso da un altro lavoratore, un tempo nel movimento operaio si diceva: “uniti siamo tutto, divisi siam canaglia”».

Per offrire una lettura complessiva del sistema di sfruttamento annidato dentro il sistema economico produttivo del nostro Paese, Città Nuova ha pubblicato un testo a più mani ma unitario nel suo svolgimento, intitolato “Spezzare le catene” a partire dal fatto che per cambiare le regole del sistema economico non ci si può fermare solo al pur positivo esercizio del consumo critico, o come si dice con formula fortunata  il “voto con il portafoglio”.

Rappresenta un errore di analisi e di comprensione del fenomeno limitarsi solo alla fase che riguarda il lavoro bracciantile, in gran parte coperto da immigrati, stagionali o meno. In Italia, con molta fatica e ostacoli, è stata approvata la legge 199 del 2016 che reprime la pratica del caporalato o interposizione illecita di manodopera colpendo anche i datori di lavoro. Una vittoria raggiunta grazie anche allo sdegno provocato dalla morte per fatica, nel 2015, di Paola Clemente della quale conosciamo il volto in una foto scattata, seduta al tavolo, vestita a festa accanto al marito durante uno di quei lunghi matrimoni del nostro Sud.

La sentiamo a noi prossima, riusciamo ad immaginare l’amore per i 3 figli, il marito costretto a casa da un’invalidità e lei che decide di andare a lavorare per pochi euro al giorno dopo aver fatto un viaggio di oltre due ore sul pullman dell’organizzazione che l’ha messa formalmente in regola grazie ad una società interinale.

Siamo ormai abituati a questa scissione del rapporto tra impresa e lavoratore affittato da altra impresa come oggetto di una transazione commerciale. Di fatto il potere del padrone davanti a operai fungibili come un enorme esercito di riserva, è molto evidente fino ad impedire pause o l’assunzione di farmaci necessari per non morire collassata, come purtroppo è accaduto, sotto il caldo opprimente del tendone di lavorazione dell’uva.

Il libro “spezzare le catene” è pensato come un racconto collettivo di un magistrato, Giuseppe Gatti, un sapiente giornalista di inchiesta di Avvenire, Toni Mira, e un sindacalista dal parlare forbito, Jean Renè Bilongo, che proviene dal Camerun ma sente di far parte della località campana che ha visto l’uccisione da parte delle mafie nel lontano 1989 di Jerry Masslo, un rifugiato politico arrivato dal Sud Africa, molo attivo contro l’ingiustizia.

Gatti, ora alla direzione nazionale antimafia, illustra “l’indicibile” della violentissima mafia del foggiano presente nella filiera agroalimentare fiorente in quello sterminato territorio, di fatto, non presidiato dallo Stato. Sono storie terribili riportate accanto a segni di riscatto, sempre presenti dentro le contraddizioni della nostra società, che vanno conosciute per non sfuggire dal principio di realtà. L’incremento del numero di aborti nel ragusano per lo sfruttamento lavorativo e sessuale delle braccianti rumene è solo un dettaglio di un girone dell’inferno concentrazionario che possono diventare le nostre campagne.

Il grande guaio del nostro tempo consiste nell’aver scordato la sana sequenza classica della gioventù operaia cristiana, ripetuta spesso da Francesco, di “vedere, capire e agire”. Non rimuovere lo sguardo è già un primo passo, ma diventa inutile e deprimente se si rinuncia a cercare di capire la struttura ingiusta che produce quella ferita e ad agire per poterla ribaltare.

Arrivo così alla questione del cosiddetto “voto con il portafoglio” riscoperto recentemente nell’ambito di quella che si definisce economia civile. In definitiva si tratta della consapevolezza maturata da decenni con il commercio solidale introdotto grazie a persone come Francuccio Gesualdi e Alex Langer, direttamente riconducibili all’esperienza della scuola di Barbiana, la vena d’oro di tante intuizioni e pratiche della società civile e responsabile.

Il boicottaggio esplicito e pubblico di prodotti recanti l’impronta dello sfruttamento a favore di scelte di una economia di giustizia deve però tendere ad essere condiviso da un gran numero di persone, secondo l’esempio da cui prende il nome il termine Boycott (una comunità compatta che taglia ogni rapporto con il padrone odIoso) o lo sciopero dei mezzi in Alabama, e comunque praticabile non solo da una frazione elitaria di ceti colti e affluenti ma da tutti. Anche da chi come la famiglia di Paola Clemente è costretta vivere dignitosamente con un reddito precario.

Ben vengano le esperienze come l’etichetta sfrutta zero o no cap, sperando che crescano, ma la sfida va portata nel sistema della contrattazione dei prezzi dei prodotti che arrivano sul bancone dei supermercati.

La legge del 2016 sanziona più duramente il caporalato e lo sfruttamento sui campi giungendo a sequestrare i beni delle aziende che si avvalgono del lavoro schiavistico, ma propone e non obbliga i produttori ad aderire alla rete del lavoro agricolo di qualità, pur incentivato in diversa maniera, e soprattutto non vincola gli attori della distribuzione organizzata    a rifornirsi solo da queste aziende che si impegnano a rispettare la normativa del lavoro.

Senza questo vincolo, non ci può meravigliare del numero basso dell’imprese iscritte a tale albo aperto presso l’Inps ( solo 4 mila su centinaia di migliaia come riporta l’ultimo rapporto della asso distribuzione e forum Ambrosetti). Bisogna poi stare molto attenti alle certificazioni formali di enti terzi ( SA8000 E GRASP “GLOBALG.A.P Risk Assessment on Social Practices” (Controllo dei Rischi nelle Pratiche Sociali), vantate da alcuni grandi soggetti della gdo come requisito per rientrare nell’albo dei loro fornitori.

Come documentato nel libro la campagna di Oxfam chiede l’adozione di procedure interne di autovalutazione da parte della stessa impresa di distribuzione, come avviene per alcuni marchi olandesi. Ma di fatto le imprese che crescono sul mercato, come Eurospin e Md,sono quelle che neanche si sognano di mettersi in dialogo con la società civile. Sanno bene che il loro clienti cercano di risparmiare sulla spesa.

Il numero di ottobre 2020 di Altro Consumo è dedicata alle “spesa da oscar”, che permettono, su scala annuale, il risparmio di 1700 euro. Che è superiore al reddito netto mensile di un lavoratore del ceto medio basso.

La Coldiretti, intervista nel libro, propone di prendere come punto di riferimento i prezzi medi dell’Ismea. L’Istituto pubblico di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare. Ma le grandi imprese commerciali, in forte competizione tra loro, non sono propense ad accettare vincoli in una contrattazione su merci deperibili e comunque il prezzo lo fanno le grandi centrali di acquisto, società che fanno da intermediazione per diversi marchi commerciali.

I produttori si trovano così davanti a grandi soggetti che possono decidere il destino della loro merce e sono propensi ad accettare il prezzo stabilito anche senza esplicite minacce.

Le pratiche più odiose come le aste al doppio ribasso, grazie ad una campagna di informazione del gruppo Terra!, sembrano destinate a scomparire così come una direttiva europea contro le pratiche sleali applicabile anche ai fornitori extra UE, approvata grazie all’impegno del parlamentare italiano De Castro, è in attesa di recepimento in questi giorni.

Nel 2012 l’allora ministro alle politiche agricole Mario Catania fece introdurre l’articolo 62 nel decreto “cresci Italia” che dispone termini massimi di pagamento a 60 giorni per le cessioni di prodotti alimentari non deteriorabili, ridotti a 30 giorni per le transazioni di prodotti alimentari deteriorabili, termini che decorrono dall’ultimo giorno del mese di ricevimento della fattura. Una norma che ha trovato mille obiezioni ed eccezioni da parte della Gdo. Potrebbe intervenire l’Autorità nazionale Garante della Concorrenza e del Mercato, fortemente sotto dimensionata, con sanzioni pari massimo a 50 mila euro che non possono impensierire colossi che, pur nella crisi, mantengono flussi milionari di cassa.

Nelle loro note consegnate in sede di commissione di inchiesta in sede parlamentare, le aziende della Gdo rispediscono al mittente ogni accusa sottolineando che non è colpa loro se lo Stato non è capace di far rispettare la legge impiegando un numero adeguato di ispettori del lavoro.

Per avere un’idea della potenza di tali imprese invito ad osservare la crescita della Conad, il consorzio nazionale dettaglianti, guidato da Francesco Pugliese, ormai il primo gruppo della Gdo in Italia (60 mila dipendenti e 14 miliardi di ricavi l’anno) che sta gestendo, assieme al noto finanziere Raffaele Mincione, una complessa operazione immobiliare legata all’acquisizione del comparto Auchan, il gruppo francese che ha deciso di uscire dal mercato italiano provocando la messa in pericolo di 3 mila lavoratori.

L’accenno a questo grave periodo di sospensione che stanno vivendo i dipendenti ex Auchan ci dovrebbe far aprire gli occhi sulla solitudine che vivono i lavoratori nelle diverse fasi della filiera produttiva e sulla mancanza di un alleanza strategica tra diversi comparti: dal bracciante al banconista del supermarket passando per gli addetti della logistica, praticamente assenti dalla percezione pubblica perché chiamati a lavorare in piattaforme lontane dai centri abitati e in orari inconsueti ( la notte o le prime ore del giorno). Quasi sempre tramite false cooperative o società fittizie legate ad un contratto di fornitura di servizi per la centrale della gdo. C’è un video emblematico che mostra la manifestazione a Cremona.

 

È una terra di antiche tradizioni sindacali delle leghe bianche di Guido Miglioli ( “la terra ai contadini!) che vede ore i lavoratori della logistica licenziati in massa per un cambio di fornitore deciso dall’acquirente: riempiono i carrelli del supermercato e si fermano davanti alle casse per dire, davanti ai clienti e commessi increduli, che non hanno i soldi per dare da mangiare alle loro famiglie. Declamano la Costituzione mentre i carabinieri li fotografano.

È bene tener presente che lo stesso decreto Sviluppo Italia, voluto da Monti, ha tolto ogni vincolo all’apertura dei centri commerciali nelle 24 ore e durante i festivi. Un dominio sulla vita delle persone oltre le 8 ore raggiunte con storiche battaglie, l’alterazione dei tempi sociali che pongono il tempio della grande distribuzione come “azienda totale” che chiede la dedizione dell’esistenza.

Val Mart negli Usa ormai ha il potere di un vero stato nello stato, anche se la sua concorrenza desertifica il tessuto commerciale dei quartieri. Una scelta basata sulla pretesa signoria dei consumatori che travolge ogni critica, della chiesa come dei sindacati.

Il predominio crescente delle piattaforme digitali, accresciuto nel periodo di lockdown, è appetibile per la Gdo che sta perfezionando accordi con i giganti del web, facendo rientrare i fattorini sottopagati nel ciclo del possibile sfruttamento sistematico come dimostra il recente caso di Uber Italy e quello della start up StraBerry accusata di sfruttare a Milano i braccianti agricoli e i venditori posizionati nelle fantasiose apecar.

È un dato di fatto che soprattutto le giovani generazioni, esposte per prime alla precarietà attuale futura, sono attratte dalle piattaforme di vendita come Amazon, sanno tutto del prime day con gli sconti allettanti come in un esperimento di laboratorio di massa, senza porsi il problema dello sfruttamento collegato a tale tipo di organizzazione del lavoro che ha permesso nel pieno della crisi al suo fondatore, Jeff Bezos, di superare i 200 miliardi di dollari di patrimonio personale.

Prima di ogni considerazione bisogna interrogarsi, senza moralismi o pessimismi, sulle ragioni che hanno indotto una disillusione verso ogni aspettativa di cambiare il mondo secondo giustizia. La prospettiva cioè che solo “l’estremista” papa Francesco continua ad indicare. Per poter spezzare di un sistema iniquo occorre, quindi, una forte alleanza soprattutto tra tutti i lavoratori, non potendo accettare di offrire i prodotti etici ad un prezzo che finisce per andare fuori mercato o accessibile solo a certe nicchie.

In Italia chi, come la Coop, cerca, pur con i suoi errori, di adottare regole interne per bandire i prodotti del lavoro nero, sta perdendo terreno e rischia di scomparire nel nostro Sud.

Per incidere sul sistema occorre cambiare lo sguardo, risvegliarsi dal sonno e dalla complicità con l’orrore accettato come parte di una realtà che contribuiamo a edificare.

 

 

 

 

 

 

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