Il lavoro non si difende con i dazi

Intervista all’economista Leonardo Becchetti a proposito delle politiche protezionistiche annunciate da Trump.  Le barriere commerciali si possono ritorcere contro chi le adotta. L’Italia, invece, deve saper investire nelle ricchezze non delocalizzabili
Flat Rock Assembly employees clap as Ford President and CEO Mark Fields (AP Photo/Carlos Osorio)

Il nuovo presidente statunitense sta portando avanti la sua contestata politica sui migranti ma, al tempo stesso, ha incontrato in prima battuta i rappresenatnti dei sindacati e delle imprese per confermare l’intenzione di riportare il lavoro all’interno della nazione che ha fatto un ricorso sistematico al sistema delle delocalizzazioni e ora si avvia a imporre dazi per ostacolare il commercio di beni prodotti all’estero.

Sulla questione del protezionismo introdotto dalla nuova presidenza statunitense di Donald Trump, come misura per creare nuovi posti di lavoro contrastando il fenomeno delle delocalizzazioni, abbiamo messo già in evidenza i due pareri di Alberto Ferrucci e Francesco Gesualdi. Restando nel merito, riproponiamo la domanda a Leonardo Becchetti, professore ordinario di Economia politica presso l’Università di Roma Tor Vergata.

 

Nonostante le critiche al nazionalismo economico esibito da Trump, bisogna osservare che la Ford ha dichiarato di aver annullato l’investimento previsto in Messico per potenziare la produzione negli Usa. Ci vuole così poco per fermare la delocalizzazione dei posti di lavoro?

Che sia possibile trattenere e creare lavoro minacciando o imponendo dazi anti-delocalizzazione è tutto da dimostrare. L’effetto finale andrà valutato nel tempo perché dipende da azioni e reazioni delle parti in causa. Di solito l’imposizione di dazi avvia una spirale di protezioni al rialzo che può danneggiare anche chi per primo ha pensato a questo strumento per proteggere la produzione nazionale.

 

Anche l’Italia o un Paese europeo potrebbe tentare questa strada del protezionismo?

La via per creare posti di lavoro “sostenibili” e ad alta dignità per i Paesi ad alto reddito come gli Stati Uniti o il nostro consiste nel ridurre il più possibile la dipendenza della propria competitività dal fattore costo del lavoro, dove siamo necessariamente perdenti se messi in competizione, a parità di qualifiche e competenze, con lavoratori a basso reddito di paesi poveri ed emergenti.

 

Ma competere sul fattore costo del lavoro non significa nei fatti abbassare salari e diritti?

No. È possibile ottenere questo risultato puntando su vari fattori come innovazione tecnologica, qualità, valorizzazione di fattori competitivi non delocalizzabili come territorio, arte, storia, cultura di cui noi siamo ricchissimi, approccio delle competenze nella formazione dei giovani, miglioramento del sistema Paese e investimenti pubblici (puntando fiscalmente su incentivi che favoriscano l’assunzione di giovani nei settori ad alta innovazione e non solo l’acquisto di macchinari). Mi sembra questo un ventaglio di strumenti con efficacia superiore a quella dei dazi.

 

per approfondire cfr il libro di Città Nuova su  Povertà e diseguaglianza

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