Lavoro e bombe, cambiare prospettiva

Da sabato 5 a domenica 6 maggio si svolgerà a Iglesias una manifestazione intitolata “Sardegna, isola di pace”. Cerchiamo di capire, fuori dalle semplificazioni, perché rappresenta una questione che ci riguarda tutti da vicino
AP Photo/Sadiq Asyraf

Arriverà anche una delegazione dallo Yemen nell’antica città mineraria di Iglesias nel fine settimana del 5 e 6 maggio 2018, assieme a tanti ospiti, a partire da Lisa Clark, rappresentante di Ican, Nobel per la pace 2017, e tanti giornalisti per un seminario promosso da Net One. Ma tutto questo è una vera notizia? Che peso ha la “Terra dei 4 mori” e quindi l’Italia nello scenario globale?

sardegna_italyLa Sardegna è il centro del mondo, secondo un tomo di oltre mille pagine scritto da Sergio Frau. L’aeroporto di Cagliari Elmas ha dedicato una mostra a questa teoria alquanto esoterica, ma affascinante.

Sicuramente questa grande isola è oggi al centro della nostra coscienza nazionale e svela un punto di frattura del sistema mondiale che arma le guerre. Da questa isola partono ordigni destinati all’Arabia Saudita, impantanata nel conflitto in Yemen, una guerra non troppo a distanza con l’Iran e che rischia di diventare il suo Vietnam. Nonostante bombardamenti indiscriminati, condannati e certificati dall’Onu, la situazione sembra incancrenita. È scoppiata un’epidemia di colera che ha colpito almeno un milione di persone. La guerra come dice, senza falsi moralismi, lo stratega Giandrea Gaiani deve essere violentissima ma breve. Quando si prolunga vuol dire che l’instabilità è funzionale ad altro. Come il disastro che avviene in Siria.

Alleati di chi? Per cosa?

Fulvio Scaglione, editorialista di Avvenire, ha colto nel segno nel contributo scritto per il portale “gli occhi della guerra” de Il Giornale, a commento del recente discorso di Gentiloni alla Camera dove ha giustificato la nostra fedeltà nazionale all’alleanza occidentale, anche dopo l’ultimo massiccio e “scenografico” bombardamento operato da Usa, Francia e Gran Bretagna ad inizio aprile 2018.

Il presidente del consiglio pro tempore ha affermato che «L’Italia è un coerente alleato degli Stati Uniti, e non di questa o quella amministrazione Usa». Una coerenza, osserva Scaglione, che ci ha condotto a sostenere 2001 la guerra in Afghanistan, nel 2003 quella in Iraq e, nel 2011, quella in Libia. Tutte ferite aperte generatrici di caos. Ma ciò che emerge da questa posizione è l’accettazione del fatto che nello Yemen «i nostri alleati (proprio Usa, Francia e Regno Unito) collaborano con la coalizione guidata dall’Arabia Saudita che, da anni, bombarda senza pietà pure i civili».

AP Photo/Evan Vucci
AP Photo/Evan Vucci

Si spiega con questo legame “coerente” il rifiuto della maggioranza della Camera ad approvare, nel settembre 2017, quelle mozioni che chiedevano di fermare immediatamente, in forza della legge 185/90, l’invio di bombe destinate alla coalizione saudita, cioè agli alleati dei nostri alleati vincolati con la dinastia al potere da contratti miliardari in armi esibiti senza pudore. L’Arabia Saudita è il secondo importatore mondiale di armi dopo l’India. Possiede una leva finanziaria tale che gli ha permesso, come osservava, nel 2015, Alberto Negri su Il Sole 24 ore, di salvare la francese Areva, multinazionale del nucleare, dal fallimento.

I capitali non hanno confini

Pensare, tuttavia, di lavarsi la coscienza limitandosi a fermare l’esportazione di armi dalla Sardegna vuol dire restare dentro uno schema sterile già scritto da altri. Probabilmente la multinazionale tedesca che possiede la Rwm Italia, azienda che produce gli ordigni con il numero di matricola trovato tra le macerie in Yemen, potrebbe delocalizzare direttamente nella penisola arabica secondo il parere di alcuni esperti. La vulnerabilità dei lavoratori davanti alla libertà estrema dei capitali finanziari è una costante del nostro tempo ed è causa di una lotta tra poveri che ammutolisce ogni istanza di fraternità internazionale. Per fare un esempio, oggi gli operai torinesi della multinazionale Embraco devono temere i loro colleghi slovacchi ai quali hanno insegnato il mestiere.

AP Photo/Andy Wong
AP Photo/Andy Wong

L’ “economia che uccide” come la definisce papa Francesco non è solo quella delle bombe ma di chi affama e umilia famiglie e interi territori. Fermarsi a denunciare la produzione bellica senza mettere in discussione e ribaltare il meccanismo del ricatto del lavoro, che acceca lo sguardo e genera il rancore, vuol dire accettare una logica umanitaria astratta.  È la prospettiva, purtroppo, che segue in modo automatico la gran parte dell’informazione quando si sofferma impietosamente a intervistare la popolazione di Domusnovas, sede della Rwm, che ripete le ragioni della poca occupazione da salvare in una provincia martoriata dalla crisi. Come osserva giustamente don Roberto Sciolla, parroco ad Iglesias, lasciare nella povertà gran parte di una popolazione che nell’intera isola raggiunge solo un milione e mezzo di persone (metà della città di Roma!), risponde ad una certa logica che apre varchi alla speculazione e all’intervento esterno, spesso depredatorio di una ricchezza inestimabile (si pensi alla perenne pressione cementificatoria sulle coste).

Chi decide davvero?

Su questi temi si doveva concentrare la settimana sociale dei cattolici italiani celebrata in un blindato centro fieristico di Cagliari a fine ottobre del 2017. Quale politica industriale si vuole portare avanti? Dove vanno a finire i fondi strutturali europei in un Regione a statuto speciale?  Perché fare del lavoro uno strumento di ricatto e non di riscatto come ha invece sollecitato a fare Francesco nel suo incontro a Genova con i lavoratori dell’Ilva? Domande che non sono state prese di petto quando il presidente del Consiglio Gentiloni è passato di corsa all’assise dei cattolici italiani usando parole di stima reciproca poco prima di muoversi per andare in viaggio di stato tra l’altro proprio in Arabia Saudita e India. Domande comunque pubblicate da una petizione spontanea raccolta, in poche ore, tra un centinaio di delegati presenti a Cagliari.

Nel dicembre del 2017 parlavo con un inviato di una importante trasmissione della Rai davanti alla chiesa di Domusnovas mentre cominciavano a sciogliersi le campane per la festa di santa Barbara, cara ai minatori costretti a convivere con gli esplosivi. Il giorno prima ci trovavamo ad Iglesias ad ascoltare l’appello accorato di Elio Pagani, obiettore alla produzione bellica negli anni 80 e tra i padri della legge 185/90 oggi umiliata. Il contesto era quello di un seminario su pace e lavoro organizzato dal comitato per la riconversione della Rwm e non solo, il nome scelto è molto più lungo, per affermare, assieme al no alle bombe, il sì più grande ad un economia a servizio della vita con interventi di imprenditori e studiosi disposti a cimentarsi per una diversa idea di territorio. Ora è chiaro che non può essere questa la soluzione al problema se non si riscontra il sostegno del mondo della ricerca universitaria come di tutto il sistema Paese, come si usa dire. Ad esempio il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda è sbarcato trionfalmente in Sardegna prima delle elezioni di marzo 2018 per annunciare l’esito positivo della dolorosa vicenda Alcoa, che ha visto anche la bastonatura degli operai manifestanti a Roma, grazie agli investimenti di Invitalia, l’Agenzia per lo sviluppo di proprietà del ministero dell’economia, spesso definita come carrozzone inutile, dispensatore di alti stipendi decisi dalla politica.

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La vera notizia sono le persone che ripudiano la guerra

All’inviato Rai citavo ciò che Francesco ha ripetuto quando è andato suoi luoghi di Primo Mazzolari e cioè che “il destino del mondo matura nelle periferie”, lontano cioè dai centri del potere e del denaro, come questa terra bellissima del Sulcis Iglesiente, quando qualcuno cerca di invertire la rotta di una storia tragica e banale già scritta. Lo dimostra il percorso, mite e ostinato, del Comitato per la riconversione assieme al movimento di persone e associazioni che lo sostiene a livello nazionale e non solo perché davvero è qui il centro del mondo. Il luogo della nostra coscienza collettiva che può mettere in crisi il sistema e le risibili giustificazioni di un presunto progresso che ci conduce all’autodistruzione. È qui si salva la nostra umanità ed è questa la vera notizia. E invece ci si ostina a veicolare la solita storia della “gente” che non vuole sapere di appelli moralistici così come i sindacati e confindustria, tranne l’eccezione, spuria e destinata ad affievolirsi, dei forse ingenui idealisti. Alla fine, ci si convince che l’essere umano è fatto così, ridotto alla astrazione dell’Homo oeconomicus determinato solo dalla massimizzazione della ricchezza individuale, perfetto ingranaggio del sistema che uccide anche senza le bombe.

Hani Al-Ansi/dpa/AP
Hani Al-Ansi/dpa/AP

Davanti alla fabbrica di Domusnovas non ho fatto le foto al solito muro circondato dal filo spinato, al simpatico addetto alla sicurezza che deve campare facendo rispettare la distanza dagli intrusi e al parcheggio anonimo dei dipendenti, diretti e indiretti, della catena di comando che riporta fino alla tedesca Rheinmetall Defence, che le armi le produce fin dai tempi di Bismarck. Ho cercato di vedere la campagna intorno, la fattoria che si estende della vicinanza. Gli esperti la chiamano “coscienza di luogo” e matura con la presenza fisica, con la percezione di un luogo che non resta anonimo e indifferente, così come lo sguardo di coloro che, a qualche centinaio di chilometri, hanno storie e volti da riconoscere.

Il centro del mondo è davvero qui.

Per chi vuole conoscere e partecipare ecco il programma di Iglesias

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