Libia: il “lascia o raddoppia” di Haftar

Continuano i combattimenti nei pressi di Tripoli. Le forze del maresciallo che governa Bengasi e l’est del Paese vogliono conquistare la capitale, mentre i rivali del governo di unità nazionale si difendono e contrattaccano, ignorando l'invito delle Nazioni Unite a una tregua umanitaria

Che la situazione stia precipitando nel confronto tra le truppe del maresciallo Haftar, il signore di Bengasi, l’Anl, e l’esercito del premier al-Sarraj a Tripoli, il Gna, lo dice il fatto che la missione delle Nazioni Unite in Libia (chiamata Manul) ha lanciato un «appello urgente» per una tregua di due ore nella periferia sud di Tripoli per l’evacuazione dei feriti e dei civili. Nei fatti si teme lo scoppio di una vera e propria guerra civile. Ma i belligeranti non ne hanno voluto sapere, e i combattimenti continuano. Gli stessi servizi di soccorso libici non sono stati in grado di entrare nelle zone di scontro.

La Libia, lo sappiamo, ha conosciuto una profonda destabilizzazione della situazione interna sin dal 2001, quando eserciti europei e statunitensi, guidati da una scellerata “alleanza elettorale” tra francesi e britannici (Sarkozy e Cameron), cominciarono a bombardare il Paese, arrivando all’eliminazione fisica del dittatore Muammar Gheddafi. Ma lasciando un Paese, come i più attenti osservatori temevano unanimemente, in uno stato di guerra civile latente, per la rinascita di spinte tribali divergenti fino allora tenute sotto scacco dal regime forte di Gheddafi. Fu l’ennesima guerra lanciata dal “fronte occidentale”, guerre «per l’esportazione della democrazia» e volte a eliminare dittatori sanguinari. Ma tali guerre evidenziarono ben presto una tragica mancanza di previsione e soprattutto di visione per quel che sarebbe successo, arrivando spesso e volentieri a situazioni ben peggiori di quelle vigenti sotto tali dittatori.

Oggi forse siamo alla vigilia del nuovo inizio di una cruenta guerra civile, con l’offensiva lanciata giovedì dalle forze del maresciallo Haftar, uomo forte dell’est del Paese, con l’obiettivo dichiarato di prendere Tripoli e convincere l’Occidente intero della sua primazia sulla Libia. L’attacco segna un evidente degrado tra le due entità in lotta per il potere: le forze di Khalifa Haftar sono infatti fedeli all’autorità che governa l’Oriente del Paese (con l’appoggio soprattutto di Francia ed Egitto), che si oppone al governo di unità nazionale nella parte orientale del Paese, a Tripoli, riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale.

Sul terreno i combattimenti infuriano soprattutto a Sud della capitale, in particolare a Wadi Rabi e all’interno del perimetro dell’aeroporto internazionale, un’infrastruttura sottoutilizzata dalla sua distruzione del 2014. L’Esercito nazionale libico (Anl), la forza paramilitare guidata dal maresciallo Haftar, ha annunciato domenica di aver lanciato il suo primo raid aereo alla periferia Sud di Tripoli. Per reazione, le forze governative hanno lanciato un’offensiva, chiamata “vulcano di rabbia” per «ripulire tutte le città libiche dagli aggressori pro-Haftar». Mentre l’esercito statunitense, seguendo l’istinto trumpiano ormai conosciuto di abbandonare il campo quando c’è pericolo di versamento di sangue, ha annunciato domenica il ritiro temporaneo delle sue forze armate in Libia.

Almeno 21 persone sarebbero state uccise e 27 ferite dall’inizio dell’offensiva di Haftar. La Mezzaluna Rossa libica ha detto che un medico è stato ucciso. Da parte sua, l’Anl ha annunciato sabato di aver perso 14 combattenti, mentre da parte del Gna di Fayez al-Sarraj non si danno cifre, ma si afferma che un sostegno massiccio sta arrivando da tutto il resto del Paese per sostenere le forze governative. In particolare i potenti gruppi armati nella città di Misurata, 200 km a est di Tripoli, sembrano aver deciso di partecipare «alla difesa della capitale», così come le milizie di Zentan (a sud ovest di Tripoli) e di Zawiya (ad ovest di Tripoli). Almeno un importante gruppo armato a Misurata, la Brigata 166, è arrivata sabato a Tripoli con decine di veicoli blindati, tra cui cannoni anti-aerei stando alla France Press.

Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres col maresciallo Khalifa Haftar a Benghazi.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres col maresciallo Khalifa Haftar a Benghazi.

Il maresciallo Haftar, che prevedeva una rapida capitolazione di Tripoli attraverso presunte alleanze con alcune fazioni di Tripoli, pare ora sorpreso dalla mobilitazione a favore di al-Sarraj. È stato un colpo di poker quello di Haftar? Un “lascia o raddoppia” in salsa libica? È presto per dirlo. L’unica cosa certa oggi come oggi è che il rischio di guerra civile è altissimo, al punto che le istituzioni internazionali sono state prese da una frenesia insolita per cercare di evitare la conflagrazione, ma il successo di tali azioni è limitato. L’escalation verbale da entrambe le parti cresce e non aiuta ad una eventuale conciliazione. Il segretario generale dell’Onu era appena giunto a Bengasi e aveva stretto la mano ad Haftar, quando lo stesso maresciallo con quello sgarbo istituzionale in cui è maestro, ha lanciato l’attacco. Che arriva poco prima di una conferenza nazionale, sotto l’egida dell’Onu, prevista per metà aprile a Ghadames (nel Sud-Ovest del Paese), che dovrebbe avrebbe dovuto tracciare una road map verso nuove elezioni. Ora la stessa conferenza è in dubbio. E forse l’attacco di Haftar è stato determinato proprio dalla convinzione che tale conferenza non sarebbe stata favorevole al suo campo.

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