L’arrivo in Pakistan. Un mondo “diverso”

Una lingua sconosciuta. La casa povera ma dignitosa. Ne Oltre il velo, nel cuore del Pakistan (Città Nuova) Daniela Bignone racconta l'impatto con un mondo diverso, tutto da scoprire
copertina OLTRE IL VELO

Ho conosciuto il Pakistan di tutti i giorni, quello “vestito da casa”, quello dei volti amici e della saggezza, dell’ospitalità e dell’arte di arrangiarsi, ed è quello che racconterò qui. Lo farò attraversando i rapporti che ho costruito, la ricchezza umana incontrata; rivivrò le “assurdità” che fanno innervosire o sorridere. Non certo per negare le evidenti contraddizioni di questa terra, le ingiustizie, la violenza, le pazzie giustificate nel nome di credenze e tradizioni, ma piuttosto per togliere il velo su un’umanità che rivela l’“altra parte” della storia, per mostrare il positivo che ho respirato.

Se non contiamo l’avventuroso volo charter che a circa diciotto anni mi aveva portato a Londra per una vacanza di alcuni giorni, posso considerare quella del 1° gennaio 1986 la mia prima vera esperienza nei cieli. Partivo per il Pakistan su un boeing della Pakistan Air Lines ingoiando le lacrime che non riuscivo a trattenere, dopo aver salutato al telefono mia madre e mio fratello. Nell’abitacolo c’era uno strano profumo di cibo a me sconosciuto. Gli annunci in urdu e in inglese non mi dicevano nulla, dato che non conoscevo né l’una né l’altra lingua. Di quel volo diretto che mi portava a Karachi ricordo le sette ore trascorse quasi ininterrottamente a guardare fuori dal finestrino la notte stellata, in un colloquio a tu per tu con Dio. Non ricordo di essermi chiesta cosa avrei trovato, né di aver provato a immaginare la vita che mi aspettava. Mi sentivo portata più dalle circostanze che da chissà quali grandi sogni: avevo fatto una scelta per la vita, e quel viaggio era una delle tante conseguenze di un impegno preso fino in fondo.

Al Terminal 3 del vecchio aeroporto di Karachi c’era ad attendermi un mare di uomini che indossavano l’abito tipico, e cioè pantaloni ampi e camicioni che arrivano sotto il ginocchio, di color beige, azzurrino o bianco. Stupidamente cercavo con gli occhi una cravatta. A pensarci ora mi viene da ridere: chissà perché proprio una cravatta! Fra la folla scorsi le mie future compagne, le focolarine che erano venute a prendermi. Ci salutammo frettolosamente per sfuggire a quell’assalto umano che voleva a tutti i costi rifilarci un taxi e ci avviammo verso un vecchio macinino arancione. Era notte. La grande strada a tre corsie correva deserta davanti a noi e non serviva a distogliermi dalla sensazione che mi pervadeva: ormai non potevo più tornare indietro. In un’atmosfera surreale, stordita dal sonno e dalle novità, approdai all’appartamento del quarto piano di un condominio popolare: B 22, Faria Apartments.

Il vero atterraggio è avvenuto qui. Scale annerite dallo smog e dal tempo e, oltre la porta d’ingresso, stanze di piccole dimensioni con le pareti dai colori vivacissimi. L’appartamento non era di proprietà, e un gusto maschile caratterizzava i pochi mobili di seconda mano e alcune suppellettili di prima necessità che lo arredavano. La casa era povera, ma quella povertà di mezzi non disturbava, mi faceva un gran bene. I ventilatori con grandi pale da elicottero emettevano un rumore degno di tale accostamento. L’unico armadio che vedevo in giro era grigio, di ferro. Il vecchio frigorifero aveva più la funzione di una credenza portavivande: nulla lasciava pensare che potesse raffreddare qualcosa. In cucina, su un bancone di cemento era appoggiato un fornello a due fuochi. Tutto era grigio, ma i muri fucsia ravvivavano l’atmosfera.

Una tendina arrangiata nascondeva il sottostante rudimentale scaffale dove erano riposte alcune pentole e un po’ di vettovaglie. Non c’erano piastrelle né in cucina né in bagno e i servizi igienici, nonostante lo sforzo di tenere tutto pulito, sembravano quelli delle nostre stazioni ferroviarie di qualche anno fa. La polvere regnava sovrana e non valeva a nulla lo sforzo di detronizzarla, anche se ripetuto più volte al giorno. Tutto ciò, però, polvere compresa, aveva la sua poesia, riportava a una semplicità attraente. Non ho mai sofferto la privazione dei comfort, la mancanza dei piccoli elettrodomestici, la scomodità di dover continuamente inventare soluzioni. Dietro ogni particolare di quella casa si sentiva l’accoglienza, l’attenzione di qualcuno che aveva pensato a noi e, con il suo criterio di abbondanza, si era sforzato di andare oltre il metro di misura locale, proprio perché eravamo straniere. In fondo, quello era lo standard della gente comune, neppure dei più poveri. Rifletteva uno stile di vita.

Dovevo riposare per recuperare la notte di viaggio e mi sono ritrovata sola in una stanza in cui, oltre a me, c’erano soltanto due brandine di ferro e un sottilissimo materasso di crine. I muri erano dipinti di un verde intenso che dava quasi al blu. Fuori, il gracchiare sordo dei corvi faceva da sfondo a un canto lento e inesorabile: la preghiera che saliva dalla moschea al di là della strada. Non era facile addormentarsi, il cuore era stretto in una morsa di nostalgia.

Daniela Bignone, Oltre il velo, nel cuore del Pakistan (Città Nuova, 2013), € 9,00; pp. 120. Il libro sarà in libreria a partire da metà febbraio.

 

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