L’albero di stanze

Un romanzo vibrante, dove la parole fluida e adamantina di Giuseppe Lupo tesse un lessico di magico realismo e dove la tenerezza dello sguardo accompagna il trapasso delle stagioni
Lupo

Se i muri di ogni casa potessero parlare, ascolteremmo le storie della nostra gente, le tracce della loro vita, raccoglieremmo pianti, sorrisi, intrighi, sotterfugi, gioie e speranze, e vedremmo rivivere luoghi e volti del passato. Lo scrittore Giuseppe Lupo, nel passaggio per i luoghi della sua infanzia e giovinezza in Basilicata ha sentito questo forte richiamo ed ha ripreso tra le mani quel filo mai interrotto che lo ha legato alla sua terra e si è messo in ascolto delle voci della casa paterna.

 

S’avverte infatti nelle pagine del suo ultimo romanzo L’albero di stanze (Marsilio editore) la cifra autobiografica, quella scintilla ispiratrice che nasce proprio dal ritrovarsi fra quelle mura antiche, dando vita ad uno dei romanzi più originali e belli dell’ultima stagione narrativa. Un romanzo che procede come uno spartito musicale, dove a suonare le note sono i numerosi personaggi che in varie epoche hanno abitato la casa dei Bensalem.

 

Le chiavi di questa casa sono nelle mani di Crocifossi, un uomo senza tempo e dalla memoria vasta, che ha accompagnato la famiglia di ieri fino a giungere in aiuto a Babele, protagonista del romanzo, pronipote dell’antico e glorioso capostipite Redentore, giunto in Basilicata per l’ultimo e definitivo atto di cessione della casa.

 

Babele è medico e vive a Parigicon moglie e due figlie e nel suo viaggio in Basilicata per salutare definitivamente quella originale e mitica casa costruita in altezza, quasi un albero di stanze che ad ogni stagione metteva un ramo nuovo, viene catturato da quei muri parlanti che con ostinazione vogliono raccontare: “Hanno intuito che la casa sarà venduta e nulla di quanto le è appartenuto dovrà finire ai forestieri.”

 

Crocifossi è lì ad attenderlo e ad aprirgli ogni passaggio, ogni sentiero nascosto, nel mentre una squadra di operai smonta letti ed armadi per denudare la stravagante abitazione. Se la famiglia ha abbandonato la casa, Crocifossi è rimasto sempre lì, nume tutelare, a difendere quel groviglio di rami domestici, quel passato che ha segnato anche la sua esperienza. Si muove lentamente quasi a voler rallentare il tempo nell’ ultima dolorosa trasformazione.

 

Babele, nonostante un difetto di udito, si scopre invece capace di ascoltare quel concerto di voci che sembrano stregarlo e riassapora nello snodarsi delle antiche vicende la bellezza racchiusa in quegli spazi. Ecco allora venirgli incontro ad uno ad uno, con il carico della loro generosa vitalità, i membri della sua numerosa famiglia di origine, dal bisnonno Redentore fino ai genitori Forestino e Severina Maestra che ritornano a popolare quelle stanze vuote e a danzare sulle note dei sentimenti, a cavalcare le onde della storia, ad espandere il profumo del loro amore.

 

La presenza di Babele ha riacceso la fiamma anticae i muri ora parlano ininterrottamente e i discorsi si intrecciano nel vortice di un’irruenza comunicativa. Ma quelle parole, per risplendere come gioielli, hanno bisogno di silenzio e Babele apre la sua mente e il cuore e lascia che, stanza per stanza, il raccordo si dipani. Ne è travolto, affascinato, quasi un’esperienza da sempre attesa che lo porta ad essere, in quegli ultimi giorni del 1999, uomo rinnovato dal passato, nel mentre si apre il nuovo secolo. E’ un’esperienza dell’anima, un ritrovare pienamente se stesso, un sentire scorrere nelle sue vene il sangue degli avi, un raccogliere nel presente preghiere, ammonizioni, rimbrotti e incitamenti.

 

Ne verrà fuori un nuovo Babeleche ritrova la saldatura tra quello che è stato e quello che sarà, non più sordo alla vita ma aperto al mistero che sempre ci sovrasta, al racconto dell’unica vera favola, quella della sua stessa vita: “Lasciammo la casa un pomeriggio d’inverno e mia madre non era stata mai così raggiante: sperava che mettere radici da qualche altra parte del mondo avrebbe sanato le ferite dei giorni lontani.”

 

Un romanzo vibrante, dove la parole fluida e adamantina di Giuseppe Lupo tesse un lessico di magico realismo e dove la tenerezza dello sguardo accompagna il trapasso delle stagioni, l’esperienza delle nascite e delle morti in un affresco che lascia intuire la dimensione dell’eternità.

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