La vicenda della Diaz ricostruita da un poliziotto

L'Italia è stata condannata dalla Corte europea per tortura a seguito delle incursioni della polizia nella scuola di Genova, dove si trovavano i manifestant del G8. Strasburgo ha evidenziato inoltre che nel nostro Paese manca una legislazione a riguardo. Intanto vi riproponiamo la testimonianza di un commissario di polizia in congedo pubblicata nel 2012 da Città Nuova
Scena da "Diaz"

Tratto da un articolo del 2012. La testimonianza di un commissario della polizia in congedo

La recente sentenza della Suprema Corte sugli eventi del G8 di Genova stabilisce «la verità giudiziaria»: dirigenti, funzionari e agenti di polizia hanno commesso dei reati e per questo sono stati condannati. Ma «la verità ontologico/professionale» per la disfunzione del sistema «ordine pubblico» non è stata a mio avviso compiutamente affrontata. In quegli eventi è stata fatta violenza non solo alla città e ai suoi cittadini, ai dimostranti irruenti o pacifici, ma anche all’istituzione Polizia nel senso più nobile e alla generalità dei tutori dell’ordine che ogni giorno rischiano la vita per la libertà di tutti.
 
I poliziotti condannati hanno non solo pagato nel modo più duro e umiliante i loro comportamenti, ma anche l’osservanza prona a un “sistema premiale” voluto dall’alto, capace di incidere spietatamente sui loro destini professionali e sulla vita e dignità delle persone. Un sistema che (interpellanze 2-00761 e 00738 del 2005 di non pochi senatori ai ministri dell’Interno) ha favorito l’involuzione della «legge 121/81 che è stata la più straordinaria riforma democratica avvenuta in Italia dal dopoguerra» (Della Porta-Reiter, Polizia e protesta, ed. Il Mulino 2003).
 
Nel mio piccolo ho tentato vanamente di oppormi a quella spirale involutiva di cui i fatti di Genova, peraltro preceduti mesi prima da analoghi episodi a Napoli, sono stati un corollario. Avrei potuto, per la funzione svolta, essere inviato in quella città dove ho lavorato e che amo. Stranamente ciò non avvenne. Quel tremendo 21 luglio, da Roma, scrissi a un vicecapo della polizia: «In questi giorni è stata prodotta una lacerazione mai completamente sanabile tra polizia e cittadini».
 
Sono rattristato per i colleghi che conosco, validi investigatori come il loro curriculum oltre l’episodio dimostra. Il direttore generale della Polizia di Stato, Manganelli, afferma: «È l’ora delle scuse». Giustamente, ma tardivamente, anche se ha chiarito il perché. Altri avrebbero dovuto farlo subito, forse per l’approssimazione gestionale dei servizi, la scelta degli uomini, le direttive date o non date, l’attitudine verso la magistratura. Ma la verità giudiziaria è stata scritta. Tuttavia ora che il sacrificio è compiuto chissà che non possa esserci un momento di catarsi, come lo fu per il collega Fournier mal additato quando parlò di «macelleria messicana». Sarebbe, oltre ogni sentenza, un momento di maturità e di ripartenza per questa nostra tormentata Polizia di Stato su cui si stanno intrecciando forse strani giochi.
 
Una Polizia, e lo dico a ragion veduta, fondamentalmente sana, che è tra le più professionali del mondo e che ha al suo interno le risorse umane e democratiche per riprendersi e continuare con onore. Per questo oggi più che mai c’è bisogno del contributo di tutti. Agnoletto chiede sul blog di Bebbe Grillo: «Qual è la formazione che avviene in polizia?». Domanda importante, che rinvia all’accennato processo involutivo: nella legge 121/81 noi volemmo che i riferimenti fossero la Costituzione e il concetto civile di sicurezza.
 
Un appello sul web vorrebbe che si proiettasse sulle reti Rai il film Diaz di Daniele Vicari. Sarebbe opportuno qualora ciò avvenisse che, come ho suggerito al produttore Procacci e al regista dopo avere visto, soffrendo, il film insieme a degli studenti, si aggiungesse alle frasi finali che scorrono anche questa: «Dedicato alla città di Genova e ai suoi cittadini, a tutti coloro che hanno subìto violenze e umiliazioni nella caserma Diaz e a Bolzaneto, alle loro famiglie, ai “tutori dell’ordine” che svolgono quotidianamente il loro lavoro nell’interesse della collettività e non dimenticano mai il rispetto assoluto per la persona e i suoi diritti».
 
Per quel che mi riguarda, da anni attendo giustizia per il “congedo d’ufficio anzitempo” che quel vertice dell’amministrazione mi inflisse il primo  maggio 2004 attraverso le numerose “non promozioni” in cui ben 700 funzionari di polizia più giovani d’età e di servizio via via mi scavalcarono. Tra loro i colleghi ora condannati e allora inquisiti. A ottobre finalmente dovrebbe svolgersi l’ennesima udienza del Tar per la mia vicenda per la quale Gino Giugni parlò di “mobbing” istituzionale.
 
 

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons