La via di Jim Dine

Il Palazzo delle Esposizioni a Roma presenta uno dei maggiori protagonisti dell’arte americana che ha avuto un grande impatto sulla cultura visiva contemporanea, in particolare su quella italiana degli anni Sessanta

A 85 anni l’americano Jim ha deciso di dire o meglio di dare tutta la sua vita con una gigantesca mostra al Palazzo delle Esposizioni a Roma, fino al 2 giugno (anche al momento sospesa fino al 3 aprile per emergenza coronavirus).  Originale al grado massimo, egli rifiuta di essere catalogato in qualsiasi scuola o corrente o schema. E in verità, osservando le sue opere, resta da dire che la via per comprendere un artista tanto variegato, fantasioso e lucidamente folle è la sua vita, così come lo dicono i suoi lavori.

Parlavamo di follia, questa attitudine mentale o visione o status psicofisico che è razionale-irrazionale, vicino e lontano, comprensibile e assurdo. Un classico nella storia dell’arte antica e recente e perché no? A ben vedere, nella vita, se è vero, come scrive la Bibbia, che “un po’ di follia è saggezza”. Un po’, naturalmente. Senza esagerare nei paragoni, potremmo ricordare in qualche modo Rosso e Pontormo, Schiele o van Gogh o Pollock. Ma anche Picasso, Dalì e da noi Ligabue.

Jim inquieta da sempre. Ottanta opere tra disegni sculture e dipinti danno il quadro di una esistenza passata a cercare e a non trovare, senza meta e senza sosta: che cosa?

Dai primi acquerelli del 1959 in cui campeggia una testa isolata dal corpo – che offe un senso di terrore (della vita?) – si passa nel ’61 al grande quadro intitolato provocatoriamente Shoe (scarpa). Un “ritratto” che affascina: l’oggetto è simbolo del cammino umano sotto il sole chiaro del fondo, ma ricco come le pennellate ad olio. Nel ’63 ci mostra in The Studio un pannello multicolorato in sei zone: giallo, verde trifoglio, azzurro nuvoloso, tappeto nero con fiocchi bianchi, marrone e i sette colori dell’iride. È il mondo della pittura con le possibili variazioni cromatiche che ci appare bello, pieno di possibilità. Quando poi nel ’69 si “distrae” con Nancy and I at Ithaca, una curva laminata di paglia – l’amore? –, siamo in un momento dove diventa difficile distinguere tra bizzarria e nuove ricerche.

E arriviamo alla tematica del cuore. Piccolo o gigantesco dagli anni Settanta inizia a comparire come leit-motiv, come nell’enorme faro luminoso che è Putney Winter Hewart del 1972, trionfo della luce, esplosione gialla di chi ha intravisto qualcosa di immenso.

È la parte forse più accattivante della rassegna, una danza di cuori, un balletto fosforescente che non è mai ripetitivo ma suona come una musica ora aspra ora  lieta. Fino alle colossali sculture come Black Venus, Venere nera del ’91. Il classico che l’affascina, egli lo sospinge come icona grande e tremenda, talora ripiena di oggetti metallici dissacranti e tormentati (2009).

Il classico anticlassico, orrendo, brutto: infernale monumento al suono incrinato del nostro tempo e del tempo dell’artista.  Un inferno dantesco che non è però fatto di persone, ma di gemiti e di strida. Concludendo con le macchie colorate del 2012 e con le variazioni sul tema di Pinocchio – sghembo diritto beffardo tranquillo – appare più chiaro il percorso dell’artista fino ad oggi: la totale distruzione dell’anima fino a ridurla vagante nell’indistinto. La follia umana nella follia universale. (catalogo Quodlibet)

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