La vertigine della salita

Un libretto minimo di un giornalista-ciclista, Riccardo Barlaam, che racconta l’avventura spirituale degli umani senza volerlo fare. «Non una questione di muscoli, ma di anima, di cuore»
Riccardo Barlaam © Michele Zanzucchi 2016

È sempre una bella sorpresa scorgere nelle scansie della tua libreria preferita il libro di un tuo amico, di una persona con la quale puoi dire di aver fatto un pezzo di strada assieme. Domenica mattina, alla Feltrinelli di Largo Argentina, nell’amato settore “viaggi”, la copertina minimalista di un libretto pubblicato dalla Ediciclo, una casa editrice specializzata in ciclismo, come suggerisce il suo stesso nome. La vertigine della salita, autore Riccardo Barlaam, un nome dalle reminiscenze millenarie che non può passare inosservato. Riccardo è mio amico. Prendo in mano il libretto, della collana “Piccola filosofia di viaggio”, e leggo il sottotitolo: “Piccole considerazioni sull’ebbrezza del pedalare verso l’alto”. Lo compro. E mi metto a leggerlo attraversando il centro di Roma.

 

Non smetto più, salvo per i brevi istanti necessari per attraversare le vie della città, il Corso, via Veneto, poi Villa Borghese… Non smetto perché Riccardo mi racconta la sua vita, mi apre il suo cuore proponendo non un libro di ciclismo o di viaggi ma un trattato di vita, fisica e spirituale assieme. «Le salite in bicicletta sono molto vicine all’alpinismo. Sono quanto di più effimero e inutile ci possa essere» (16). Incipit allettante: tutto quanto è “utile” sa di artificiale. E poi la filosofia del dubbio: «I momenti in cui rimettere in discussione la prova, sono sempre dietro qualche angolo recondito della mente» (17).

 

Riccardo, che in gioventù era mezzofondista, è oggi un ciclista dilettante di tutto rispetto. E' un amatore: «Seguendo l’etimologia l’amatore è colui che ama, ha una passione smisurata» (57). Proprio quello che la sua vita di sposo, di padre, di giornalista (ora a il Sole24ore) mostrano. Un uomo che riflette su quanto viviamo al giorno d’oggi, quando dobbiamo essere sempre connessi e ci troviamo spesso sconnessi da noi stessi: «Si è immersi tutti come automi in quel piccolo rettangolo di cristallo e metallo che abbiamo tra le mani. Non si è più abituati a soffrire né a sentire la fatica» (64): il limite è sempre presente nel libro, che in fondo appare un manuale per superarlo o, al contrario, per accettarlo.

 

Barlaam ci dà piccole perle di saggezza e, direi, sapienza, come verso la fine del libro quando scrive: «Fondamentale è aver sempre presente che cosa stiamo facendo e soprattutto perché lo stiamo facendo, non perdere di mira cioè lo scopo delle nostre pedalate in verticale, facendosi prendere da rigurgiti di giovanilismo tardivo o di atletismo da “campionite” acuta» (82-83). E cita Nibali, alla vigilia dell’impresa finale nell’ultimo Giro: «In fondo questa è solo una corsa in bicicletta, non è la cosa più importante della vita» (90).

 

Arrivo a casa col cuore colmo di gratitudine per Riccardo Barlaam e le sue parole. Oggi non ho bisogno di prendermi altro tempo per meditare.

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