La verità di Oscar Romero

Dal 2011, il 24 marzo, data del martirio del vescovo salvadoregno, è stata proclamata Giornata Onu per la verità sui diritti umani. L’invito ad alcune letture
romero

«Aspettammo un po’. Nella piazza non c’era anima viva perché era stata resa deserta dalla polizia». È il 1983 e Giovanni Paolo II aveva deciso di recarsi in Salvador nel pieno di una guerra civile, che farà almeno 80 mila vittime su 4 milioni di abitanti. Il piccolo stato centro americano era segnato da una delle più inique distribuzioni delle ricchezze dovuta ad un regime violento e dispotico. L’episodio è riferito dal gesuita Roberto Tucci, organizzatore dei viaggi di un papa così testardo, che riuscì a farsi consegnare le chiavi di una cattedrale sbarrata per impedire la sua visita alla tomba del vescovo Oscar Romero, assassinato su quell’altare il 24 marzo del 1980. Il 24 marzo è diventato da quest’anno giornata Onu della verità sui diritti umani.

 

L’episodio appena riportanto e tanti altri altrettanto significativi sono contenuti nell’ultimo libro di Anselmo Palini Oscar Romero. Ho udito il grido del mio popolo (edizioni Ave). L’autore è sempre attento a cogliere storie dove affiora una coscienza capace di disobbedire al potere prevalente di turno perché legata ad un’obbedienza più forte, fonte di liberazione. “Primero Dios” è, infatti, un motto tipico del «vescovo educato dal suo popolo», secondo una definizione emblematica del cardinal Carlo Maria Martini. Le parole dirette di Romero, senza tentazioni equilibriste, si possono leggere in un testo edito da Città Nuova, La violenza dell’amore, e si rivelano continua fonte di ispirazione nella scelta quotidiana. D’altra parte vorrà dir pur qualcosa se gli squadroni della repressione di tanti salvadoregni sconosciuti, il più delle volte poveri contadini, individuavano nella presenza in casa di un libro del vangelo l’elemento provante della sovversione. E difatti lo stesso Wojtyla nella celebrazione del Colosseo nell’anno 2000 per ricordare i martiri del XX secolo, associava Romero «ai catechisti e catechiste coraggiose, ai religiosi e religiose fedeli alla loro consacrazione, ai laici impegnati nel servizio della pace e della giustizia, testimoni della fraternità senza frontiere».

 

L’immagine migliore che ci fa cogliere il senso di questa testimonianza collettiva è in tante foto dove questo vescovo, di formazione tradizionale e mite, compare assieme alla sua gente in una compromissione così radicale da accettare ogni travisamento e incomprensione proprio da parte di chi gli era più vicino. Le critiche al suo agire non si sono interrotte neanche dopo la sua scomparsa. E forse questo è il martirio più difficile da subire. In pratica gli si chiedeva di stare zitto e far finta di nulla davanti allo scempio di un popolo oppresso grazie anche a riconosciute e conclamate solidarietà internazionali. Non c’è bisogno di aver visto il crudo film di Oliver Stone sul Salvador per rendersene conto. Si potrebbe prendere il testo che Romero stesso scrisse a febbraio del 1980 direttamente al presidente Usa dell’epoca facendo appello agli evidenti «sentimenti religiosi e alla sensibilità nella difesa dei diritti dell’uomo» di Jimmy Carter per «garantire che il suo governo non interverrà direttamente o indirettamente con pressioni militari, economiche e diplomatiche, nella determinazione del destino del popolo salvadoregno». Possiamo immaginare il grave conflitto di coscienza di Carter, stretto tra ragion di Stato e sensibile, al contempo, alla richiesta di un altro cristiano che, trattando di fede e politica, invitava a leggere i «testi dei profeti non come voci lontane che leggiamo riverenti nella nostra liturgia ma come realtà quotidiane, la cui realtà viviamo ogni giorno» perchè «in questo avvicinarci al povero apprendiamo di più circa il mistero di Cristo, che si fa povero per noi».

 

Nella settimana intorno al 24 marzo si svolgono ogni anno a Roma, una serie di iniziative da parte della vasta comunità latino americana e di alcune realtà molto legate alla vicenda di Romero, alcuune le trovate segnalate tra i nostri appuntamenti. C’è un legame molto forte tra questa città e quel continente una volta definito “scomparso” e lo testimonia Romero stesso nei suoi diari. Facendo i bagagli per tornare nel suo Paese, dopo alcuni viaggi in Italia tra apprensione e consolazione, scriveva: «Roma sarà sempre per i nostri cuori, madre, maestra, patria».         

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