La sentenza 242 sul suicidio assistito

Il parere di un palliativista sulla decisione della Corte costituzionale relativamente al caso DJ Fabo
Giorgio Lattanzi, presidente della Corte Costituzionale al momento della sentenza sul caso DJ Fabo

La sentenza 242 della Corte costituzionale interviene sull’articolo 580 del codice penale «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio». Il quesito era se il suicidio assistito dovesse continuare ad essere equiparato (anche nelle sue conseguenze penali) all’istigazione al suicidio, dopo che nel 2018 la Suprema Corte aveva invano chiesto al Parlamento di legiferare sull’argomento. L’oggetto specifico era il caso di Fabiano Antoniani (“DJ Fabo”), accompagnato in Svizzera da Marco Cappato per esaudire la reiterata richiesta di porre fine alla propria vita.

Nella lunga disanima della Corte costituzionale emergono tutte le complessità del nostro tempo, trattandosi di «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta». Tre aspetti vanno sottolineati:
– La sentenza ammette la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, ribadendo però che ciò riguarda un’area «molto circoscritta» di situazioni «la cui sussistenza dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto». La Corte ne elenca 10, che dovranno essere tutte contemporaneamente presenti, e prende una posizione netta sul fatto che il auicidio assistito (Sa) sia “Suicidio medicalmente assistito” (Sma), cosa che a livello internazionale non è così consolidata.
Questo non significa la legalizzazione del suicidio assistito alla luce del vigente quadro costituzionale di «tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, […] anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere». In mancanza delle condizioni previste, l’aiuto al suicidio rimane quindi reato penale.
– Dalla sentenza non deriva l’obbligo per i medici di praticare il suicidio assistito. L’obiezione di coscienza non è pertanto necessaria… per ora.

Nel testo si parla molto di sedazione palliativa, ma con una certa ambiguità, come se fosse una “rapida alternativa” all’eutanasia: in realtà si tratta di un atto completamente diverso – riservato a situazioni di sofferenza non altrimenti controllabile, negli ultimi giorni di vita –, che trova significato solo se inserito in un percorso di cure palliative, le quali «non affrettano né posticipano la morte, affermano la vita e riconoscono la morte come processo naturale» (Iahpc 2018).

Lasciano perplessi anche gli “strumenti di controllo obbligatori”: il richiamo alla legge 194 non tranquillizza, considerando quante volte la “rigorosa valutazione” sia disattesa nelle “catene di montaggio” degli aborti in Italia. Sorprende l’ipotesi che debbano occuparsene i Comitati etici locali (che gestiscono l’autorizzazione di nuovi farmaci e le sperimentazioni cliniche). Anche qui viene posta la condizione che siano state offerte le cure palliative, che vengono giustamente valorizzate come possibile risposta alternativa all’umana disperazione che può portare a richiedere il suicidio assistito, ma col rischio che diventino un formalismo per avere tutte le crocette necessarie alla compilazione di un modulo di autorizzazione.

Una sentenza, quindi, che deve essere studiata parola per parola, perché il “pendio scivoloso” è un rischio sempre presente. Ora che il suicidio assistito è stato “sdoganato”, almeno in casi limitati, probabilmente seguiranno altri passi in una direzione che sembra segnata. Lo suggeriscono i richiami nel testo al fatto che “allo stato attuale” la sentenza riguarda un’urgenza, e l’ipotesi che una soluzione sia di intervenire con una “semplice” integrazione della legge 219/2017: una forzatura che scardinerebbe l’intero impianto centrato su rapporto di cura e pianificazione condivisa.

Voce controcorrente quella di papa Francesco: secondo le sentenze talora pronunciate nelle aule di giustizia, «l’interesse principale di una persona disabile o anziana sarebbe quello di morire e non di essere curato». I verdetti di «una giurisprudenza che si autodefinisce “creativa” inventano un “diritto di morire” privo di qualsiasi fondamento giuridico, e in questo modo affievoliscono gli sforzi per lenire il dolore e non abbandonare a sé stessa la persona che si avvia a concludere la propria esistenza».

La parola dovrebbe adesso tornare al Parlamento italiano, se ne sarà in grado: per questo sarà importante continuare a stimolare il confronto e le riflessioni sul tema del “fine vita” e delle cure palliative, a tutti i livelli della società civile e della cittadinanza.

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