La rete

Graziella, Giosi, Natalia, Dori. Attorno a Chiara Lubich si compone presto una rete di giovani donne che scelgono come lei Dio come tutto della propria vita. Il racconto nelle pagine de Abbiamo creduto all’amore di Gaetano Minuta (Città Nuova), di prossima pubblicazione
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Si respirava aria di guerra. Il 1˚ settembre 1939, con l’invasione della Polonia da parte della Germania di Hitler, era iniziata la Seconda guerra mondiale e, nel giugno del 1940, nonostante la dichiarazione di “non-belligeranza”, l’Italia fascista era entrata nel conflitto mondiale. Per Trento passava la linea ferroviaria che collegava Roma e Berlino. Il bombardamento del 2 settembre 1943, il primo che colpiva la città, aveva trovato Trento impreparata. Non esistevano rifugi antiaerei e molti furono i morti e i feriti. La città venne devastata.

Di quel tremendo giorno Graziella De Luca ricordava: «A terra, con le unghie infisse nel suolo per la paura, tra il susseguirsi delle esplosioni in tre ondate successive, vedo in sintesi la mia vita. Capisco che Dio c’è, ma non è ancora entrato in essa e la mia vita è vuota. Gridai con tutta la forza dei miei polmoni, senza curarmi di nessuno: “Dio mio, Dio mio, non farmi morire perché adesso so che cosa significhi vivere”. Tre soldati vengono a mandarci via perché, poco lontano, sono cadute alcune bombe: una è esplosa lasciandoci illesi, ma le altre, vicinissime, possono esplodere da un momento all’altro. Mi passa un brivido per la schiena: tocco con mano l’intervento di Dio».

Prima dello scoppio della guerra, Graziella abitava a Messina. Intraprendente, piena di interessi com’era, non passava inosservata. Era invidiabile anche per la sua bellezza. «Un sabato pomeriggio andai a fare una passeggiata lungo la circonvallazione, una bellissima strada da cui si vede il porto di Messina, Reggio Calabria, e le colline attorno. Dentro mi risuonava una serie di domande: “Perché sono nata? Qual è il senso della vita? Da dove vengo? Dove vado? Qual è la mia meta finale?”.

Questi e altri interrogativi del genere mi tormentavano. Ad un certo angolo della strada, mi accorsi che in uno slargo c’era un’aiuola e, poco più in là, un capitello con un san Francesco che pareva parlasse agli uccelli. Mi fermai a guardare quel santo, mentre mentalmente gli dicevo: “Se Dio esiste, se tu sei un santo, dà una risposta a questa mia ricerca, agli interrogativi che mi consumano. Cosa sto cercando? Cos’è questo tutto che non trovo mai e che mi manca così disperatamente? Se sei un santo, rispondimi!”».

La guerra aveva costretto la famiglia De Luca a tornare a Trento, città della madre. Graziella riuscì a trovare anche un lavoro. Un giorno arrivò l’invito a un incontro… «L’appuntamento era in Sala Massaia, poco lontano dal mio ufficio. Indossai un abito bianco a fiori blu, sgargiante, con le maniche corte e una scollatura arricciata. L’abito contrastava vivacemente con le mie lunghe trecce bionde e la mia carnagione bianchissima. (…). Notai alcune ragazze, forse tre, che si dirigevano verso di me: Chiara, Natalia e Dori. Sembrava che mi conoscessero da sempre. Chiara era di una bellezza singolare e vestiva alla moda con molto gusto. Non avevano niente di quello che avevo immaginato: vestiti all’antica e capelli tirati. Bruna di capelli, Chiara aveva persino una bella permanente: una delle prime che si vedevano in giro. Rimasi impressionata dall’accoglienza, sembrava che mi volessero già bene, eppure era la prima volta che mi vedevano; e non era una simpatia forzata la loro, ma spontanea, sincera, autentica e mi sorprendeva tanto. Vennero altre ragazze. La sala era diversa dalle solite sale per conferenze, con file di sedie anonime.

Lì le sedie formavano un cerchio e Chiara, che si accingeva a parlare, era in mezzo come una di loro. Il discorso di Chiara non mi sembrò preparato. Parlava dell’amore che san Francesco e santa Caterina portavano ai poveri. Era qualcosa che non saprei ripetere, ma certo era che le sue parole mi catturarono.

Arrivò così il momento magico della mia vita, talmente forte ed intimo che non vorrei mai raccontarlo. Eppure devo riuscire a trasmetterlo perché è vero, perché è stato così. Mentre Chiara parlava, vidi con gli occhi dell’anima una grandissima luce e capii che era Dio, amore infinito.

La comprensione si accompagnava a questa luce interiore: dire “ho capito” tuttavia era già un passaggio troppo lungo, si trattava di una sensazione immediata. Era Dio, Amore infinito, che mi saziava completamente l’anima, in me non restava alcun vuoto. Era quello che avevo cercato da sempre! (…) Alla conclusione dell’incontro, Chiara con le altre si diresse verso la chiesa sottostante di S. Marco. Mi unii a loro e mi inginocchiai anch’io alla balaustra davanti al tabernacolo. Seppi che avevano ringraziato Dio perché era stato pescato il primo pesce grosso. (…) Natalia, durante l’incontro, non aveva fatto altro che recitare il rosario perché mi convertissi».

Le prime pope cantavano sempre e rivolgevano a Dio le canzoni trasmesse dalla radio. Stupore e gioia le caratterizzavano.

Il giro delle conoscenze aumentava grazie anche agli incontri del sabato pomeriggio in Sala Massaia. Dori diceva che per questi incontri c’era una preparazione: «Durante la settimana mettevamo nel cuore di Gesù tutte le persone che ci passavano accanto, invitavamo i conoscenti… e soprattutto cercavamo di vivere, perché il sabato bisognava donare soltanto quello che si era vissuto, non si potevano fare soltanto dei bei discorsi!».

Un giorno Chiara e Dori videro affrettarsi per la strada un’allegra e sbarazzina ragazza dal soprabito azzurro e “la misero nel cuore di Gesù”. Chi era? Si chiamava Giosi Guella: «Nell’aprile del 1944 una ragazza mi ha invitato a passare la domenica con un gruppo di giovani della mia età. Si cominciava con la messa e la comunione, poi avrebbe parlato un sacerdote e poi… Eravamo fuori città, nell’orfanotrofio dei padri cappuccini a Cognola, al riparo delle bombe, e c’era un bel prato, dove si poteva correre. Credo che fu questo particolare a farmi decidere. Nel bombardamento del 2 settembre 1943, il primo che aveva colpito le case della città di Trento, ci furono molti morti. Quel giorno era stato quasi distrutto il convento alla chiesa delle suore di Maria Bambina di fronte al pensionato per ragazze dove abitavo. La nostra casa non era stata colpita, ma era calato un buio completo.

Noi ospiti ci eravamo trovati in cucina al pianterreno, senza rifugio. Un sacerdote, casualmente presente, ci aveva dato l’assoluzione in articulo mortis perché non si sapeva se sarebbe arrivata qualche altra bomba e cosa avrebbe colpito. Gli allarmi erano frequenti, essendo Trento il collegamento con la Germania. Passare la domenica fuori città, con un gruppo di ragazze, dove si poteva correre nel prato all’aria aperta, mi attirava e in una domenica di fine aprile mi presentai all’appuntamento a Porta Aquila. Avvertii da lontano il gruppetto dal loro vociare gioioso e, quando mi avvicinai, notai l’espressione di sorpresa della ragazza che era al centro.

Non ci feci caso, salutai e con loro, a piedi, ci avviammo verso Cognola. Bella la messa, la predica, la compagnia delle ragazze, il prato. Mi trovai bene per tutto. Pranzammo con gioia: una minestra calda, offerta, se non ricordo male, dai padri, e un panino (il pane era tesserato) portato con noi.

Nel pomeriggio una ragazza ci chiamò: “Voglio raccontarvi una storia”. Ci radunammo nel prato, in un punto bello, dove un grosso albero faceva da riparo e creava un salotto naturale. Chiara – era lei che ci aveva chiamato – si appoggiò all’albero. Noi, sette-otto ragazze, ci sedemmo sull’erba, davanti a lei. Ci raccontò la storia di santa Chiara di Assisi. L’ascoltavo incantata: quella fanciulla giovane, bella, ricca, nobile, istruita, che, innamorata di Dio, lascia tutto, fugge da casa e nella notte incontra san Francesco il quale le rivolge una domanda: “Cosa desideri?”. Poteva rispondere in tanti modi – continuò Chiara –, ma per lei una cosa sola aveva significato e rispose con una sola parola: “Dio”.

Questa risposta, questa parola, in quel momento, e forse com’è stata pronunciata, o per tutto l’insieme di cose, per me non è stata una parola: è stata come una goccia di fuoco. Ho avvertito la presenza di Dio in un modo talmente forte da poter dire che quel giorno Dio è diventato l’ideale della mia vita».

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