La responsabilità nel bicchiere

Con il divieto di vendere alcolici ai minori di sedici anni nel Comune di Milano, in Italia si torna a parlare di proibizionismo.

«Ma come, in Italia non c’è un’età legale per bere?». Una domanda che, fino a qualche tempo fa, si sentivano rivolgere i giovani italiani dai coetanei stranieri, specialmente negli Stati Uniti. Oltreoceano le regole sono ferree. Non solo niente alcolici fino ai 21 anni – anche al supermercato tutti devono esibire la carta d’identità per acquistarli, anziani compresi – ma anche divieto totale di entrare nei locali fino alla fatidica maggiore età: ci pensa un energumeno all’ingresso a controllare i documenti. In Australia la musica è la stessa fino ai 18 anni: quei locali che consentono ai minorenni di entrare devono confinarli in una zona dove gli alcolici non vengono serviti. Anche nel Nordeuropa la legge impone limiti simili.

 

Ora in Italia si torna a parlare dell’opportunità di seguire queste orme, in seguito alla linea dura del Comune di Milano che ha vietato la vendita di alcolici ai minori di 16 anni. Se la reazione focosa dei diretti interessati era prevedibile, forse lo è meno il consenso raccolto dal provvedimento: secondo i sondaggi online di vari quotidiani nazionali la maggior parte dei lettori – dal 70 all’80 percento – si dice d’accordo con la giunta Moratti. Ma non manca chi, pur concordando sul fatto che annegare i dispiaceri in un bicchiere a 15 anni non sia un comportamento da incentivare, dubita che il proibizionismo possa essere la soluzione.

 

I primi sono proprio quei giovani che, avendo vissuto all’estero per motivi di studio o di lavoro, hanno già visto gli effetti del no alla bottiglia. Nei campus universitari americani fiorisce il commercio di carte d’identità false: in quello di Berkeley bastano 150 dollari per procurarsene una da qualche studente che ha le conoscenze giuste. Un affarone. Legittimo chiedersi se sia più grave farsi una birra a 20 anni o falsificare un documento.

 

In Australia, buona parte delle feste organizzate in casa dai ragazzi in età da liceo includono la sbronza, con bottiglie gentilmente procurate da amici più grandi in quantità da commercio all’ingrosso: già che ci sono, meglio approfittarne. Peccato che il sapore della trasgressione, ingrediente fondamentale di questi party, si presti a finire con una chiamata alla polizia da parte dei vicini, esasperati da urla, schiamazzi e specie di zombie che si aggirano in cortile a notte fonda.

 

In Nuova Zelanda si arriva ad una situazione paradossale: «I divieti sull’alcol sono così stretti – racconta Emanuele, appena tornato da un periodo di studio di sei mesi ad Auckland – che è più facile procurarsi le droghe leggere, soprattutto marijuana. Così chi vuole trasgredire preferisce il fumo, salvo ubriacarsi comunque nel momento in cui riesce a mettere le mani su una bottiglia».

 

Posto dunque che il proibizionismo non ha risolto il problema, la questione sta nello spostamento di mentalità: la birra con gli amici non è più un momento per stare insieme, da vivere però con responsabilità e misura, ma diventa “l’alcol per l’alcol”, l’abuso e la trasgressione in sé e per sé fino ad esaurimento scorte. Anche la giunta milanese è cosciente che, più che con divieti magari non sempre applicati, il problema dell’abuso di alcol si risolve con l’educazione: la prima fase della campagna infatti è solo informativa, tramite dei volantini distribuiti ai giovani per spiegare quali sono i danni che l’alcol può provocare.

 

Nessuna  legge e nessuna campagna informativa però farà ciò che la famiglia può e deve fare: educare i figli alla responsabilità su questo tema, facendo capire la differenza tra il bicchiere in compagnia e lo scolarsi la bottiglia anche oltre i 16 anni – soprattutto dopo i 18, quando i ragazzi hanno la patente in tasca. In un Paese come l’Italia, che ha alle spalle una cultura del bicchiere come piacere da condividere e non come trasgressione, le basi da cui partire ci sono.

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