La passione di Antonio

Un ritratto del giovane deceduto a Strasburgo nell’attentato dell’11 dicembre al mercatino di Natale tra i ricordi della nostra collaboratrice

Sulla mia bacheca Facebook compare un ricordo di una mia compagna alla scuola di giornalismo – che, a onor del vero, non sento da molto tempo. È una foto scattata in corriera, in cui compaiono alcuni di noi corsisti. «Questa foto mi è stata fatta da non so chi il 15 dicembre del 2008. Dieci anni fa esatti. Sono con i miei compagni di scuola di giornalismo e stiamo andando a seguire da “giornalisti”, o aspiranti tali, i lavori della Plenaria a Strasburgo. Dieci anni dopo con lo stesso viaggio, la stessa città, la stessa Plenaria, lo stesso progetto scalcagnato e incerto, ma cocciuto, di futuro, Antonio Megalizzi è morto. Aveva 28 anni. Quelli esatti che avevo io in questa foto».

La notizia della morte del giovane giornalista italiano è appena giunta. Si trovava lì a seguire la seduta del Parlamento europeo per la radio universitaria Europhonica – da volontario, peraltro: curiosa ironia di una sorte che, nel mondo del giornalismo, ti obbliga spesso ad andare avanti a suon di sola passione – e, come molti amici hanno ricordato, credeva fermamente nel progetto europeo; ma è diventato la quarta vittima della sparatoria dell’11 dicembre scorso, a causa della ferita riportata alla base del cranio e non operabile.

Lo ammetto, fin da subito la notizia mi ha toccata. E ancora di più mi ha toccata leggere quel ricordo. Perché uno dei punti di forza del terrorismo è infatti darci la sensazione che “potevo essere io”, in virtù del suo colpire nei luoghi abitualmente frequentati da tanti. E sicuramente lo stesso pensiero l’avranno fatto tanti giovani italiani: perché in Antonio Megalizzi sicuramente possono riconoscersi in molti. Giovani che sempre più si spostano in Europa, per studio, per passione o per lavoro; e che sempre più hanno a che fare direttamente con quelle istituzioni europee giudicate troppo lontane dai cittadini – foss’anche solo per andare in Erasmus, perché senza “l’Europa” che lo finanzia l’Erasmus non esisterebbe. Giovani che nel proprio lavoro, a fronte dell’incertezza economica, devono avere grande passione e motivazione per proseguire. E che probabilmente in questa “Europa” credono molto di più della maggior parte dei connazionali, nonostante, stando ai dati che arrivano da più fronti, si avviino ad essere la prima generazione che starà peggio di quella dei propri padri. Anzi, forse confidano proprio in un rinnovamento del progetto europeo per cambiare quello che non sentono come un ineluttabile destino di decrescita infelice.

Particolarmente significativo è stato il ricordo di Antonio pubblicato da un collaboratore de La Stampa, amico del giovane: «Ogni giorno degli ultimi tre anni abbiamo costruito da zero un progetto a cui non credeva nessuno. Nessuno. Volevamo raccontare l’Europa e la sua politica ai nostri coetanei. Antonio non meritava di finire su tutti i giornali per una insulsa pallottola di un terrorista. Meritava di raccontare l’Europa e il mondo come sognava di fare per lavoro. Sognava di farlo per sempre. Sognava un’Europa diversa e io non lascerò morire quell’idea. Noi di Europhonica non permetteremo che tutto sia vano. Il Parlamento europeo dovrebbe intitolarti mille borse di studio, l’Aula di Strasburgo per la tua voglia, il tuo impegno anche quando non c’erano i soldi ma solo la passione». Parole forti, indubbiamente, ma che danno prova di come lo stesso entusiasmo che animava Antonio non sia svanito per opera di un terrorista.

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