La pace che non pacifica

Guerre
Ci sono quattro ore da Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord, fino a Tskhinvali, capitale dell’Ossezia del Sud. Si percorre una strada di montagna lungo la valle del fiume Terek. Le opere di ingegneria rifinite dal pressappochismo sovietico contrastano con la bellezza delle montagne del Caucaso. Questa è la strada percorsa dai carri armati russi nei giorni del confronto con la Georgia. Di blindati e camion militari, se ne vedono tanti lungo il percorso. Alla frontiera troviamo un’intera colonna di camion marcati con una Croce rossa: un ospedale russo che sta rientrando. Ci lasciano passare senza controllare i documenti, perché il nostro gruppo di giornalisti ha avuto il sostegno della presidenza russa. Ed ecco il tunnel di Roka. L’auto della polizia di Vladikavkaz che ci scorta procede tranquillamente nel territorio dell’Ossezia del Sud, come se si trattasse dello stesso Paese. Appaiono i primi villaggi, e poi i primi evidenti segni di distruzione: sono i villaggi georgiani, dove ormai non c’è quasi nessuno. Non è chiaro quel che è successo qui, ma le rovine fanno pensare che le case siano state distrutte ed incendiate. Un paio d’ore più tardi solleviamo la questione col presidente dell’Ossezia del Sud, Eduard Kokoiti. Si giustifica dicendo che quei villaggi erano pieni di truppe speciali che hanno tenuto sotto tiro i nostri villaggi e Tskhinvali. Non sembra una logica coerente la sua. I segni di distruzione nel centro di Tskhinvali sono in realtà molto evidenti. L’edificio del parlamento si presenta come uno scheletro di muri portanti anneriti e, all’interno, un ammasso di rovine. Intorno, case parzialmente bruciate, fori di pallottole, vetri rotti e calcinacci sul selciato. In un quartiere a circa mezzo chilometro dal centro alcune case sono state completamente rase al suolo. Sonia Gogloeva, 69 anni, è seduta davanti ad una tenda nuova di zecca: è felice del regalo russo. Della sua casa, lì davanti, non è rimasto niente. Eravamo nello scantinato della casa accanto e così sono ancora viva , ci racconta. Non avevo mai visto una guerra così. Durante la prima guerra, nel 1992, non c’erano carri armati, bombe, lanciagranate. Del gruppo rifugiato nello scantinato, è morto solo un uomo. Seduto davanti ai ruderi, Ghiorghi, 12 anni, porta un casco militare: Se vuoi ti faccio vedere un pezzo di grad, mi dice. E mi porta tra le macerie dove mi mostra i resti di un razzo sparato da batterie che dicono fossero piazzate nelle vicinanze di Gori. In piazza, su un minuscolo palco, un gruppo di bambini improvvisa uno spettacolino. È il primo settembre, il primo giorno di scuola: c’è tanta voglia che la vita ritorni alla normalità. Un rapido passaggio in aereo e, dopo un rigoroso controllo di passaporti al posto di frontiera russo di Adler, sul mar Nero, eccoci in Abkhazia. Il paesaggio cambia rapidamente. A Gagra le montagne arrivano quasi fino al mare. Seguono la ferrovia che in altri tempi permetteva di viaggiare fino all’Azerbaijian e all’Armenia. Oggi i treni si fermano a Sukhumi, la capitale dell’Abkhazia. Il verde intenso delle foreste che rivestono i monti contrasta con l’azzurro del mare: sentimenti d’incanto. La natura è bellissima. La varietà della vegetazione sorprende, sembra di essere in un enorme giardino botanico. Ma dietro a cedri, eucalipti e magnolie, spunta lo scheletro di qualche casa vuota, con le mura annerite dalle esplosioni del passato. Sono ormai più di 15 anni che la guerra tra georgiani e abkhazi ha colpito queste terre, ma i segni rimangono. Gli abkhazi ci tengono ad affermare che sono qui da 26 secoli. Da qui è partita la diffusione del cristianesimo nel Caucaso, ci dice Laura Sciarova, quando passiamo a Pitsunda, precisando che proprio qui è approdato l’apostolo Andrea nell’anno 53. Il principato dell’Abkhazia si è unito all’impero russo dieci anni dopo la Georgia, e la cosiddetta georgizzazione della regione sarebbe avvenuta sotto Stalin, tra la fine degli anni Trenta e la morte del dittatore. In quegli anni ci hanno tolto il diritto di insegnare la lingua abkhaza, ed hanno cercato di farci georgiani, sottolinea Serghei Bagapsh, presidente dell’Abkhazia. L’incontro col presidente avviene a Sukhumi, nella nuova sede della presidenza. Il grande palazzo del governo era stato bruciato e distrutto alla fine della guerra precedente. Bagapsh afferma che col riconoscimento russo il Paese cambierà: Abbiamo vissuto più di dieci anni nel blocco più totale, perché la Russia ci aveva addirittura tagliato l’elettricità e la possibilità di uscire, ricorda il presidente. Poi la decisione di stabilire rapporti ufficiali tra Mosca e Sukhumi, che data solo al marzo di quest’anno; ma le sanzioni del 1996 erano già scomparse silenziosamente negli ultimi anni. Io abitavo a Tkvarceli, ma dopo le ostilità era difficile rimanerci, e così siamo venuti a Sukhumi , ci dice Zoia Bebia, sulla sessantina; ricorda come prima laggiù vivevamo abkhazi, georgiani, mergheli, russi, greci e armeni, in pace e amicizia. E vivevamo bene. Finché i georgiani non hanno cominciato la guerra. Zoia ha perso un fratello e come lui sono morti molti dei nostri ragazzi. Adesso va tutto bene, commenta da parte sua Giulietta Gregoryan, armena, nata a Sukhumi, ma vissuta a Yerevan durante il periodo della guerra: sottolinea che l’importante è che ci sia la pace. Afferma di essere contenta di stare a Sukhumi, non si sente discriminata per la sua etnia e aggiunge che anche con i georgiani si poteva vivere assieme.

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