La notte degli Oscar

L’82ª edizione omaggia il ritorno ai film di poesia. Tre premi al francese muto "The Artist". Oscar a Meryl Streep come miglior attrice e alla coppia italiana Ferretti-Lo Schiavo per le scenografie
Notte degli Oscar

Si fa presto a dire che il risultato era scontato. Fino all’ultimo “i duellanti” si sono divisi il pronostico e l’unica certezza era data dall’autoreferenzialità: il cinema avrebbe premiato sé stesso e per giunta con grande fair play perché lo scambio di cortesie era totale. La Francia di The Artist celebrava Hollywood, la sua età d’oro del muto, il festoso passaggio al sonoro, lo slancio vitale di Douglas Fairbanks; gli Usa di Hugo Cabret esaltavano il genio di Georges Méliès, padre della finzione e del fantastico, che aveva catturato i sogni per regalarli alle platee di tutto il mondo.
 
Due film apparentemente contrastanti (Hugo Cabret di Martin Scorsese è un omaggio al muto tributato con le ultime conquiste della tecnologia ed esaltato dal terzo Oscar per le scenografie dei nostri Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo; The Artist di Michel Azanavicious vede invece lo stesso periodo con occhio malinconico, ma usando il suo linguaggio e i suoi strumenti espressivi), in realtà due dichiarazioni d’amore per la settima arte. Risultato finale cinque a cinque, ma le statuette pesanti tutte a The Artist.
 
Da chiedersi, caso mai, perché un premio corporativo quale l’Oscar, dove il conflitto d’interesse è la moneta di scambio per gli oltre cinquemila membri dell’Academy Award («Tu mi hai fatto lavorare e io ti voto») abbia varcato l’Atlantico e sia andato a un film francese. Lo spiega Roberto Faenza nel suo libro Un giorno quest’America (Aliberti editore) quando scrive «in California la crisi occupazionale è devastante, con punte del quaranta per cento di disoccupazione». Che ha colpito anche l’industria cinematografica, liberando una volta tanto i giurati da un voto guidato da spirito di gruppo e dovere di appartenenza. Ecco spiegata perciò la tripletta di The Artist (miglior film, miglior regia, miglior attore Jean Dujardin) e il premio per la miglior attrice a Meryl Streep per The Iron Lady. Americana sì, ma interprete di un film inglese. E il premio a Midnight in Paris di Woody Allen per la miglior sceneggiatura originale, a venticinque anni da Hannah e le sue sorelle, non ha forse lo stesso significato?
 
Forse per tutto questo l’Oscar 2012 sarà ricordato come il più spontaneo e il meno condizionato. Che lascia comunque inalterata la regola del tre (l’effetto Oscar triplica gli incassi e i compensi professionali dei premiati) e l’imparzialità che motiva la scelta del miglior film straniero. Titolo assegnato quest’anno a Una separazione (già premiato al Festival di Berlino) di Asghar Farhadi, metafora sulle lacerazioni che dividono la società iraniana ed espressione di «una cultura nascosta sotto la polvere politica», come ha detto lo stesso Farhadi. Segno che in altre parti del mondo il cinema non ha tempo di rimirarsi nello specchio con una punta di narcisismo, ma deve confrontarsi con la realtà.  
 

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