La Mostra di Venezia tra alti e bassi

Film iperpubblicizzati e piccole rivelazioni. Rotti i tabù familiari. Ovazioni per le nuove star. La rassegna cerca ancora ispirazione.
Taylor Russell e Timothee Chalamet alla Mostra del cinema di Venezia, foto LaPresse.

Venezia è sempre Venezia. Così dopo la Deneuve e Cate Blanchett è il nuovo divo Timothée Chalamet, più europeo che americano, dal fascino ambiguo, a farsi cercare dalle ragazzine impazzite per lui (e non solo) dopo il film di Guadagnino “Bones and all”, storia di una coppia di giovani cannibali (le scene sanguinolente sono spiazzanti) in cerca di amore. Horror e metafora cuciti insieme da un regista che sa far recitare bene gli attori anche se la storia è al limite, è aspra nel desiderio disumano di amore e di felicità. Forse solo l’amore ci può salvare dal male che nasce inesorabilmente in famiglia?

La famiglia è l’ossessione ormai del cinema come origine dell’infelicità. Succede questo ne L’Immensità di Emanuele Crialese, storia autobiografica di una ragazzina che vuole diventare maschio in una Roma anni Settanta con le canzoni di Patty Pravo e in un ambiente pesantissimo: padre traditore seriale e violento, madre sottomessa. Lavoro apprezzato, ma non da tutti, forse Crialese ha voluto dire troppo. E forse siamo un poco stanchi di famiglie in crisi

Stessa realtà per Athena, il film francese di Romain Gavras per Netflix sulla rivolta nelle periferie parigine, le banlieues. Storia di una famiglia, di fratelli-coltelli – uno poliziotto, l’altro giovane ribelle instabile – tra poliziotti corrotti, gente emarginata, assalti della polizia, ritmo frenetico, finale amaro di una metropoli incontrollata: già visto, purtroppo.

Questa realtà del déjà-vu percorre spesso l’intera rassegna dove le corse al Leone e agli altri premi sono tutte da vedere. Ad esempio, nella sezione Orizzonti dove il cinema italiano si fa piccolo piccolo: come riempiremo le sale? La domanda è d’obbligo, e urgente. E le molteplici conferenze e dibattiti non sanno ancora dare una risposta. Torniamo nell’Italia dei 250 film all’anno.

Il punk provinciale di Margini di Niccolò Falsetti (Settimana della critica), è la storia autobiografica di tre musicisti toscani in cerca di fama. Onestamente, un lavoro già visto, e anche un poco sgangherato. Peccato. Non eccelle nemmeno Amanda e non sfugge a certi cliché l’opera prima di Carolina Cavalli (Orizzonti) dove Benedetta Porcaroli è la ragazza sola che cerca disperatamente una amica, insegue ostinatamente una sua amica d’infanzia, altra solitudine chiusa in una stanza. Ragazze che vivono di social, ma hanno bisogno di rapporti veri, assai difficili da realizzare, tuttavia. Come sono infelici queste nuove generazioni di solitari, verrebbe da dire, e quanta inquietudine, forse, nel film, con una briciola di speranza.

Interessante Monica di Andrea Pallaoro interpretata dalla transgender Trace Lysette sul dramma dell’abbandono familiare. È la storia di Monica, rigettata dalla famiglia, ma che poi vi ritorna per assistere la madre malata, pur nel timore delle vecchie incomprensioni che risorgono. Vincerà il perdono e il riconoscersi tra madre e figlia, pur faticosamente.

Qualcosa di diverso appare invece ne Gli spiriti dell’isola diretto dall’irlandese Martin McDonagh e reso magnificamente da Colin Farrell e Brendan Gleeson. Due amici vivono in una isola sperduta nel 1923 durante la guerra civile in Irlanda. Padraic bussa alla porta di casa dell’amico di  una vita, Colm, un violinista: ma costui non lo vuole più vedere, interrompe l’amicizia. Il motivo? Difficile capirlo. Il film di silenzi e poche parole non dà riposte. Forse l’amore per l’arte è così esclusivo da distruggere gli affetti?  Si può vivere solo di arte? Al pubblico la risposta.

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