Una insostenibile sofferenza

Dietro la mediatizzazione del caso, l’ombra della strumentalizzazione dei militanti radicali per  forzare il legislatore che dal 6 marzo sarà impegnato nella discussione sulla regolamentazione del “fine vita”
ANSA / FLAVIO LO SCALZO
Il fatto: Il 27 febbraio scorso, in una clinica del Canton Ticino, Fabiano Antoniani, ex dj milanese di 39 anni, rimasto tetraplegico e cieco dopo un gravissimo incidente stradale avvenuto nel giugno del 2014, ha azionato con la bocca un pulsante che gli ha iniettato un mix di sostanze letali che in pochi minuti lo hanno ucciso, mettendo fine alle sue sofferenze. Immediatamente è stata data la notizia da Marco Cappato del Partito Radicale che , con un copione proposto da anni, si è autodenunciato all’autorità italiana, che persegue penalmente l’istigazione ma anche l’aiuto al suicidio, nella speranza di essere incriminato e di poter così essere presentato come perseguitato ingiustamente da uno Stato  oscurantista, incapace di rispettare il desiderio dei cittadini ai quali viene impedito (secondo l’ideologia radicale) di poter esercitare la libertà individuale e l’autodeterminazione. Il tutto alla vigilia della discussione alla Camera dei Deputati della Legge sulle Dichiarazioni Anticipate di trattamento che, se approvata, sancirebbe il divieto di accanimento terapeutico, peraltro già definito dal Codice di deontologia medica, ma che introdurrebbe l’inaccettabile eutanasia passiva attraverso la possibilità di interrompere l’alimentazione e l’idratazione di pazienti in fasi terminali di malattia.
Purtroppo una storia già vista con la presentazione dei “casi pietosi” usati, fina dai tempi della legge sull’aborto, per forzare la mano del legislatore.
La storia concreta di Fabo è un’altra cosa, la storia di uno sbalzo crudele dalla estrema libertà della vita vissuta pienamente nel lavoro in discoteca, al centro dell’attenzione e nell’organizzazione di divertimento e festa; ad una quotidianità buia e piena di sofferenza, in cui diventa impossibile controllare anche il più piccolo movimento del proprio corpo ed ogni suo bisogno. L’itinerario di vita di un uomo che non può essere che rispettato. E’ difficile capire fino in fondo ciò che si muove e si agita nell’intimo di una persona chiamata a vivere un’esistenza così deprivata di autonomia, totalmente dipendente da altri che possono accedere al tuo corpo impossibile da comandare.
Non si può giudicare il vissuto di un uomo. Capire cosa è per lui quella sofferenza, evidentemente insostenibile: la “terra sacra dell’altro” deve farci avvicinare con timore e tremore ed è difficile pronunciare parole…
Quello che si può dire e quello che si può fare però sta tutto nello spazio fondamentale della cura e dell’assistenza dei pazienti con disabilità gravi e gravissime. Quelle situazioni in cui è fondamentale la presenza costante di famiglia vicine e accudenti, ma soprattutto di professionisti competenti, affidabili e sensibili, per poter creare ambienti caldi e accoglienti che consentano ai pazienti di sentirsi protetti, amati, voluti.
Libertà e autodeterminazione sono parole (costantemente evocate in queste situazioni) che, apparentemente vogliono indicare l’estrema dignità dell’uomo che decide con sovranità il proprio destino, ma che invece spesso vogliono dire rottura del legame sociale, modalità sbrigativa di eliminare chi è diventato un peso economico e esistenziale per la società; un mantra quasi ipnotizzante dell’approccio individualista, una religione di cui la società capitalista dell’efficienza e dei vincenti è il suo tempio e di cui i soggetti alla Cappato sono i sacerdoti chiamati a ripeterne i riti.
Di più non si può dire e comunque non è questo il momento. Ora è il momento di rattristarsi per la morte di un uomo che ha trovato le ragioni per morire e non quelle per vivere: una sconfitta per tutti.    

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